È stata salutata con grande entusiasmo l’entrata di Piera Detassis alla direzione dei David di Donatello e in effetti qualcosa in questo premio italiano del cinema – da sempre romanocentrico, salottiero e per forza di cose provinciale – potrebbe cambiare. I primi segnali arrivano da un uso della comunicazione più giovane, volto a far ritornare al centro dell’attenzione mediatica un evento che nella sua cerimonia era già stato svecchiato qualche anno fa. Ed è sicuramente un bene riportare il cinema italiano al centro di un panorama culturale centrifugo, che confonde prodotti audiovisivi estremamente diversi tra loro e vede la rincorsa delle grandi case di produzione per lo sviluppo di serie televisive. Va poi segnalato l’inclusione tra i votanti di nuove importanti figure professionali affermatesi a livello internazionale, da Carlo Chatrian a Paolo Moretti, una nuova generazione di direttori di festival alla quale dedicheremo a breve uno speciale (anche se stupisce l’assenza della neo-direttrice della Viennale, Eva Sangiorgi).

Ma a guardare le nomination, con il trionfo di Dogman di Matteo Garrone e le sue 15 candidature, seguito da Capri Revolution di Martone (13), Loro di Sorrentino e Chiamami col tuo nome di Guadagnino (12), sembra che ben poco cambi nel panorama cinematografico italiano, se non fosse per l’importante presenza di Lazzaro felice con 9 candidature (anche se, presso la stampa, hanno fatto più clamore le stesse nomination ottenute da Sulla mia pelle di Alessio Cremonini). Non dovrebbe stupire veder inserite Alice Rohrwacher e la società Tempesta Film nel gotha del cinema italiano: del resto la regista ha già ottenuto ben due premi al Festival di Cannes e il suo produttore Carlo Cresto-Dina ha favorito l’emergere di un’ondata di nuovi talenti e permesso a un grande interprete del presente come Leonardo Di Costanzo di passare al cinema di finzione. Eppure un film rivelazione come Le meraviglie aveva ricevuto soltanto una candidatura, lasciando pensare che il cinema italiano fosse cieco di fronte al talento crescente di una giovane autrice dalla vocazione internazionale.

Forse, proprio per questo, risultano puniti autori come Alberto Fasulo che con il suo Menocchio ha conquistato i festival europei ma non è rientrato neppure in una cinquina, a sancire che conta più il logoro ingranaggio del sistema che non chi ne tenta la riformulazione. Ancora una volta i David rischiano di trascurare vie di produzione alternative, che siano quelle dell’eccellenza dei territori (come dimostrano Alberto Fasulo e Nadia Trevisan con Nefertiti) o quelle dalla vocazione internazionale (Okta Film, Tempesta Film, Vivo Film con l’esclusione totale di Figlia mia di Laura Bispuri).

Una delle novità del David più importanti riguarda i documentari, a cui è stata giustamente assegnata una giuria (composta da Pedro Armocida, Guido Albonetti, Osvaldo Bargero, Raffaella Giancristofaro, Stefania Ippoliti, Paola Jacobbi e Giacomo Ravesi) che ha scelto, nel centinaio di titoli pervenuti, una rosa di quindici film. Un ottimo lavoro, e non certo facile, capace di dare spazio sia a autori affermati (come Savona e Minervini) sia a giovani registi (Maisto, Ferrero) che proprio grazie a un documentario si sono segnalati per il loro sguardo. Purtroppo non solo la rosa finale non tiene conto (ancora una volta) che il cinema del reale è il vivaio in cui stanno crescendo i nostri filmmaker più interessanti, ma resta addirittura escluso un regista di prima grandezza come Roberto Minervini (penalizzato forse dalla mancata uscita in sala del suo nuovo film, What You Gonna Do When the World’s on Fire?, ora prevista per maggio) da una cinquina in cui a dominare sono ancora troppi documentari a soggetto.

Un premio come questo dovrebbe darsi il compito, tra i tanti, di far emergere nuovi talenti e non solo quello di confermare uno status quo. Ci piacerebbe, allora, non soltanto vedere trionfare l’opera prima di un giovane autore al posto di quella di uno splendido cinquantenne in cerca di una nuova veste (nella cinquina spiccano le assenze di Il cratere di Luca Bellino e Silvia Luzi e di Manuel di Dario Albertini); ma ancora di più che, come è miracolosamente avvenuto l’anno scorso per Jonas Carpignano, ci fossero segnali a favore della nuova ondata di cinema italiano che sta raccogliendo consensi dappertutto fuorché nello statico panorama che li ha generati. Perché come è accaduto per il Premio Strega, che premiando autori come Nicola Lagioia e Paolo Cognetti ne ha fatto casi letterari in grado di avvicinare nuovi lettori alla narrativa, allo stesso modo istituzioni di questa portata potrebbero portare tra il pubblico la stessa necessaria ventata di rinnovamento.

Anni fa, seduti a un bar con un caro amico regista, si diceva che al David di Donatello avremmo sempre preferito il David di Michelangelo, opera d’arte infinitamente più raffinata e ispiratrice. Forse qualcuno dovrebbe intitolargli un contro premio.