Rimettere in scena il passato come gesto di rigenerazione, raccontarlo attraverso nuove immagini in cui riconoscere un vissuto condiviso, con cui dare forma a un’identità comune. Queste sono le operazioni attuate negli ultimi anni da alcuni cineasti sudamericani che si confrontano con la Storia, riscrivendo, con pratiche e stili diversi, alcuni avvenimenti, spesso traumatici, dei loro paesi. Un coro di voci, ognuna con la propria tonalità. Quella autobiografica di Alfonso Cuarón che con Roma dà vita alla ricerca di una rappresentazione intima del suo Messico; o quella di Pablo Larraín che canta un’ideale trilogia sul Cile di Augusto Pinochet, dove il regime viene mostrato attraverso un filtro, lo sguardo dei tre protagonisti di Tony Manero, Post Mortem e NO. Con Una notte di 12 anni anche il regista uruguaiano Álvaro Brechner trova la sua personale voce per raccontare uno dei momenti più bui della sua nazione. Nel 1973 in Uruguay si instaura una dittatura militare che pone fine alla democrazia, e i rivoluzionari del movimento Tupamaros vengono arrestati. Il 7 settembre, nella prigione di Montevideo, i soldati prelevano con la forza nove detenuti: quella lunga notte durata dodici anni inizia come un vortice, sulle note della canzone Siga el baile trasmessa alla radio, una danza circolare, una spirale sempre più oscura di umiliazioni e soprusi. Il film di Álvaro Brechner segue la storia di tre dei prigionieri tenuti in ostaggio per 4323 giorni in condizioni disumane: Pepe, Ñato e Russo vengono spostati da un luogo di reclusione a un altro, non possono parlare con nessuno, non vedono la luce del sole.

Presentato a Venezia 75 nella sezione Orizzonti, Una notte di 12 anni non solo denuncia il volto ottuso e violento dell’oppressione, non solo ricostruisce la logorante tortura psicologica attuata dai militari, ma scava nel sudiciume di una dittatura per scoprire che, nonostante l’annientamento fisico e l’annullamento mentale dell’essere umano, il corpo non si spezza e la psiche non si frantuma. Nella solitudine di una cella vuota, le piccole cose diventano immense: il profumo delle pagine bianche di un quaderno, un brandello di un giornale trovato tra gli escrementi, un sottile spiraglio di luce che filtra dal mondo esterno a illuminare l’oscurità in cui si aggirano i detenuti. Al buio e isolati, i prigionieri resistono all’estenuante repressione che li vuole inermi, combattono con piccoli gesti di ribellione e così il divieto di interagire fra di loro si infrange quando imparano che battendo le nocche sul muro incrostato riescono a comunicare, scambiarsi poesie o giocare a scacchi.

Come nella citazione a inizio film – tratta da Nella colonia penale di Franz Kafka – anche Pepe, Ñato e Russo non conoscono la sentenza, non sanno per cosa sono stati condannati, ma lo sentiranno sulla loro pelle. Mentre gli attori protagonisti si immergono in un’interpretazione viscerale, fisica, Álvaro Brechner li segue da vicino con una regia che si acquatta per terra di fianco a loro, che entra negli animi dei detenuti rendendone visibile lo stato mentale alterato. Ma Una notte di 12 anni non si chiude in un cupo sconforto e lascia spazio a momenti comico-grotteschi: così Ñato si trova ad aspettare l’autorizzazione di un superiore per espletare i propri bisogni e Russo diventa una sorta di Cyrano che detta ai soldati lettere d’amore per conquistare le donne. Un equilibrio costante sostiene disperazione e umanità, un movimento che oscilla dentro e fuori la prigione dove il contrasto fra paesaggi rigogliosi e l’interno desolante delle celle stride come un abuso, il sonoro schiaffo di una giustizia sommaria che chiude gli occhi sulle reali condizioni degli ostaggi del regime.

Una catabasi toccante che muove emozioni sincere suscitate tuttavia da un racconto ben studiato, attraverso il calcolo di una medietas che non forza la mano verso la pura ironia né in direzione di una brutale documentazione; Brechner preferisce ricorrere a espedienti narrativi che smorzano la crudezza della storia, e a una narrazione che si arresta sempre un istante prima rispetto alla violenza della tortura. Un viaggio agli inferi dove il suono del silenzio fa un rumore assordante, dove le parole scritte da Simon&Garfunkel e cantate da Silvia Pérez Cruz sono quanto mai adatte ad accompagnare la sfibrante lotta per la sopravvivenza raccontata da Brechner e vissuta da Mauricio Rosencof, Eleuterio Fernández Huidobro e José Mujica. Futuri scrittore, Segretario della Difesa e Presidente dell’Uruguay, come ricordano le didascalie in chiusura del film, quando, dopo dodici infiniti anni, i prigionieri vengono liberati in una sequenza finale ampia e distesa, costruita, nei suoi tempi dilatati, per commuovere.

Alla fine, dopo una notte eterna, la luce illumina corpi che si rianimano. L’uomo è capace di distruggere, ma anche di generare vita e di trasformare un orinale in un piccolo terrario dove cresce un fiore, simbolo di tenacia e resilienza. Quello di Álvaro Brechner è un film sulla resistenza e sull’impegno alla resistenza, sulla necessità di continuare a raccontare la lotta contro l’ingiustizia, sul bisogno di non dimenticare.