Nel ricco panorama di giovani professionisti italiani che si stanno affermando ad alti livelli in abito europeo, Paolo Moretti è quello provvisto del curriculum più internazionale, segnato fin dagli esordi dal desiderio di condividere la passione cinematografica per mezzo di un’intensa opera di programmazione – fosse quella di un cineforum scolastico, la gestione della sezione di una festival o la direzione di una manifestazione – con particolare attenzione a pratiche inclusive in grado di scardinare limitazioni di genere e forma per creare cortocircuiti e connessioni inusitate.

L’abbiamo incontrato all’indomani della nomina – il primo non-francese in cinquant’anni di storia – a delegato generale della Quinzaine des réalisateurs, per ricapitolare un percorso formativo che l’ha portato a lavorare al fianco di figure centrali nel mondo dei festival cinematografici degli ultimi decenni, da Marco Müller a Luciano Barisone e Jean-Pierre Rehm, curatori creativi e pensatori dell’arte della programmazione che hanno spalancato nuove strade lungo le quali Moretti è ora riconosciuto tra i più talentuosi direttori di nuova generazione.


Sono curioso di conoscere il tuo percorso, so che a differenza di altri non arrivi dalla critica cinematografica…

Il mio percorso è molto complesso. Sono nato in una valle a nord di Brescia, in cui non c’è nemmeno un cinema laico, sono tutti parrocchiali… La mia cinefilia ha preso il via, come per molti altri della mia generazione, grazie all’incredibile risorsa di Fuori Orario e a una videoteca di Brescia. Ho capito cosa fosse una retrospettiva quando sono andato a studiare Lettere a Parma, dove c’erano ben 6 cineclub attivi, e ho modificato subito il mio piano di studi indirizzandolo verso l’estetica e la storia del cinema… ero sempre in sala! Ho pensato subito di fare qualcosa sul mio territorio: già a 17 anni avevo organizzato i miei primi cineforum scolastici, creando poi un’associazione, un circolo del cinema, poi ho preso il patentino di proiezionista e siccome non c’era budget alcuno facevo il proiezionista, il programmatore, gestivo biglietteria e presentazioni… tutto. Per, talvolta, 4 spettatori… Programmavo film del circuito, restauri, film di nuovi autori italiani, anche se restavano sale parrocchiali e, ad esempio, mi sono trovato a dover chiedere il “vaglio morale” al parroco per poter presentare la versione restaurata di Signore e signori di Germi che, per inciso, mi è stata negata perché la domanda è stata trasmessa al Centro Diocesano dello Spettacolo, sul cui impolverato registro figurava ancora il giudizio negativo risalente all’epoca di uscita del film…

E la tua prima esperienza in un festival quale è stata?

Schermi d’amore, il festival di Verona. Facevo il responsabile tecnico, per via del patentino di proiezionista. Dopo il primo anno avevo proposto di declinare il tema del festival, quello dell’amore, attraverso forme poco convenzionali non accolte dalla programmazione usuale della manifestazione: documentario, danza filmata, cinema “sperimentale”, etc. Era il momento in cui partivo per Parigi, dopo la Laurea, per lavorare al Centre Pompidou con il Progetto Leonardo, dove potevo fare le mie ricerche. Sono rimasto a Parigi per un anno, lavorando al centro di produzione audiovisiva del Pompidou, per poi andare a Madrid a lavorare presso la Filmoteca española, e sono rimasto lì per nove mesi, dopo di ché sono andato al Festival di Leeds seguendo un programma europeo di “staff exchange” che credo oggi non esista più – una specie di Erasmus interno ai festival di cinema – e anche lì sono rimasto poco meno di un anno, occupandomi a tutto campo del festival, ed essendomi laureato su Franco Piavoli sono riuscito a programmare i suoi film al festival. Sono poi andato alla Cinemateca Portuguesa di Lisbona, sempre per poco meno di un anno… A quel punto sono tornato in Italia, perché mi ero iscritto nuovamente all’università e studiavo Semiotica a Bologna. Ho fatto metà degli esami ma si stava creando un gap tra il mondo reale e quello accademico che rendeva difficile portare avanti entrambi gli ambiti… Quindi ho lasciato l’università, anche se studiare Semiotica è stato importantissimo per la mia formazione: mi ha dato strumenti fondamentali per interpretare i segni in maniera più ricca, strutturando il mio sguardo con forza. A quel punto mi è arrivata una proposta da una televisione satellitare tedesca che mi invitava ad andare a lavorare a Berlino, dove ho incontrato Emilie Bujès (attuale direttrice del festival Visions du reel di Nyon, ndr), con la quale siamo diventati amici per la vita. Ma mentre ero lì mi è arrivata una lettera dal Centre Pompidou che mi chiedeva di tornare a Parigi per un anno e lavorare alla programmazione…

Un ritorno importante, che ti ha aperto nuove prospettive professionali…

Assolutamente. Mi sono occupato delle retrospettive dedicate a Kiarostami, Erice, Eustache… finché a una cena ho incontrato Marie-Pierre Duhamel che, dopo una lunghissima chiacchierata protrattasi fino a tarda notte, mi ha chiesto se volevo essere il suo braccio destro al Cinema du Réel che dirigeva. Ovviamente ho detto subito di sì! Ho fatto due edizioni del festival insieme a lei, fino al momento in cui, un mattino alle 9, ricevo una chiamata da Marco Müller che cercava collaboratori per la Mostra di Venezia. Quindi sono tornato in Italia e ho avuto il grandissimo privilegio di lavorare al fianco di Marco per quattro anni, come suo braccio destro. Seguirlo in maniera così stretta mi ha dato una percezione molto profonda del lavoro dei festival…

jke4pd2fpd4y

Immagino che si sia trattata di una collaborazione fondamentale. Quali sono stati gli insegnamenti più importanti che hai ricevuto?

Marco è impressionante su mille fronti, a partire dal modo visionario in cui programma. Un modo che viene da una comprensione profonda del cinema come un tutt’uno: non è particolarmente legato a una singola pratica ma è dotato di un’estrema apertura, è una persona che domina i registri e i codici, dalle prime mondiali gigantesche organizzate a Venezia con questioni economiche e organizzative intricatissime, basate su una profonda consapevolezza degli interessi propri di questi film, fino alla difesa di un cinema asiatico in fieri che incontra resistenza… Marco copre tutti i territori e lo fa con infinita pertinenza. Questo tipo di ricchezza è palese nei suoi programmi, e quello che in altri festival è fatto da dieci persone diverse lui lo fa da solo. Nel suo disegno, nella sua visione convivono prossimità cinefila e ragionamento strategico. Ecco: questo modo di lavorare, onnivoro, cosmopolita a un livello che non avevo mai incontrato prima, è stato il grande insegnamento di Marco, la necessità di andare oltre le strutture nazionali o nazionalistiche, pur conoscendo in profondità il territorio in cui si opera, per lavorare a 360° in quello che, come lo chiamava lui, è il “continente audiovisivo contemporaneo”.

Parliamo dei tuoi quattro anni a Venezia. In che modo si è evoluto il tuo ruolo al festival e di cosa ti sei occupato?

Il primo anno non ho vissuto, praticamente… Uno shock in termini di intensità del lavoro e cose da imparare, 24 ore su 24. Ero cosciente del privilegio che mi era capitato e volevo dare una disponibilità totale. Per un anno non ho avuto altra vita. Da quello successivo ho cominciato a prendere un po’ di tempo per me, ho capito che ero a Venezia, ho incontrato i ragazzi di Metricubi e insieme a loro abbiamo organizzato cose molto belle: la prima italiana di Rubber di Quentin Dupieux, Trash Humpers di Korine, i film di Yuri Ancarani e Gianfranco Rosi… Quasi un’estensione di quello che facevamo alla Mostra e che riguardava un’evoluzione possibile della Mostra, perché andavo a Rotterdam da anni ed era frustrante vedere in atto alcune pratiche che costituivano indizi molto forti di modernità cinematografica che Venezia non coglieva o non poteva cogliere perché non aveva spazi adeguati per includerli in modo organico. In quel momento abbiamo fatto una riflessione che ha portato all’evoluzione di Orizzonti, con una modifica del regolamento che prevedeva di poter includere opere tra i 21 e i 60 minuti precedentemente escluse; poi è arrivato Sergio Fant, insieme al quale abbiamo fatto scouting aprendo tutta una seria di canali, che ha attivato principalmente lui, per poi fare una selezione di opere che, naturalmente, sottoponevamo anche a Marco, a Marie-Pierre, e gli altri. Contemporaneamente continuavo a essere il braccio destro di Marco e ricevevo le comunicazioni di tutti i corrispondenti, fino al 2011…

Ricordo bene quell’edizione perché Filmidee era appena nata e ci avete chiamato come media partner, e abbiamo seguito Orizzonti con attenzione, dedicandogli un daily che componevamo quotidianamente dal Lido…

Orizzonti si orientava verso pratiche eterogenee, ibridazioni e linguaggi di commistione con le altre arti e con una dimensione di ricerca molto sottolineata. Two Years at Sea di Ben Rivers, Photographic Memory di Ross McElwee… Non si trattava di includere film che non si ritenevano abbastanza forti per il concorso ma si voleva sviluppare un discorso “altro” con film che avevano economie e destini differenti. Non un ghetto, quindi, ma un luogo in cui far esistere pratiche diverse rispetto a quelle tradizionali. Gabriel Abrantes, Mati Diop, Ben Rivers… Ancarani è nato lì… Vado molto fiero dei due anni di Orizzonti, in un momento dove Venezia ha avuto grande rilevanza nella scoperta di certi autori. Il primo film di Lav Diaz è stato visto a Berlino ma poi Venezia ha contribuito radicalmente alla sua progressione straordinaria, ad esempio.

two-years-at-sea-2011-movie-photo-tucgtb

L’esperienza veneziana finisce e tu ti sposti a Roma con Müller e, in seguito riprendi la tua posizione internazionale…

Sì, Sergio va a lavorare a Locarno, io vado a Roma con Marco ma senza più svolgere il ruolo di suo braccio destro per riprendere in qualche modo quello che facevo a Orizzonti all’interno di CineMaxi, facendo scouting e ricerca con mille interlocutori, considerando che non c’era l’aura che aveva la Mostra né la connessione con le arti visive che poteva procurare la prossimità con la Biennale. Ma c’era il Maxxxi, un museo d’arte contemporanea, e facevo il consigliere di programmazione sottoponendo a Marco, Marie-Pierre e il resto del comitato le mie proposte, questo per il 2012 e il 2013. Anche a Roma poi è subentrato un ulteriore cambiamento, ma nel mentre mi erano arrivate due proposte incredibili da parte di Luciano Barisone e Jean-Pierre Rehm per entrare a far parte del comitato dei festival di Nyon e Marsiglia…

Due festival fondamentali nell’indagine del cinema documentario e non solo…

Assolutamente. Pratiche singolarissime, in particolare quelle del FID, perché nel 2007, 2008, il programma del festival, che era orientato verso il documentario, includeva ad esempio un film come Autohystoria di Raya Martin… Intuizioni e cortocircuiti nella concezione della programmazione e dell’evoluzione dei generi assolutamente seminali che, come per Rotterdam, hanno giocato un grande ruolo d’anticipo in questa evoluzione. Non dimentichiamo che è proprio da Jean-Pierre Rehm e dal suo essere prima di tutto un critico d’arte, che sono arrivate una serie di iniziative in grado di incidere su altri festival trasformandone il corpo, per via di una concezione assolutamente originale e avanguardista della materia documentaria.

Dopo questo lunghissimo apprendistato arriva anche la tua prima direzione, quella a La Roche Sur Yon…

Era un festival di amici che seguivo e conoscevo. Un festival nato nel 2010 e legato a una struttura che gestisce anche una sala cittadina in una città di 55000 abitanti, la cui programmazione fino al 2013 era seguita da Emmanuel Bourdeau, ex capo-redattore dei Cahiers du Cinema che faceva un festival molto cinefilo centrato soprattutto su omaggi, retrospettive, programmazioni tematiche con una manciata di nuovi film e un’attenzione particolare al nuovo cinema americano indipendente. Quando sono arrivato io mi sono reso conto che in Francia non esistono festival generalisti, perché la maggior parte di quelli di taglia medio piccola sono o tematici delle opere d’esordio e così via, e mi piaceva l’idea di non avere costrizioni da questo punto di vista. L’unico problema della Francia è che si tende a essere Cannes-centrici, perché si pensa che tutto il cinema del mondo passi da Cannes, mentre in realtà ce n’è molto di più e quindi mi sono dedicato a portare su territorio francese tutta una serie di opere in prima nazionale con la stessa apertura di spirito nella programmazione che avevamo a Venezia e con la consapevolezza di lavorare in una cittadina piuttosto piccola… L’idea era quella di coniugare una dimensione popolare con una certa contemporaneità, così sono passati di lì Abel Ferrara, Kelly Richard, Monte Hellman, Amalric, Podalides, Bonello, etc.

KellyR

E adesso questo prestigioso incarico a Cannes, come direttore della Quinzaine des réalisateurs, sezione gloriosa del festival e straordinario compimento del tuo percorso…

Più che una sezione è quasi un festival nel festival, una programmazione creata alla fine degli anni ’60 da un gruppo di registi per rendere visibili pratiche che non erano presenti nella selezione ufficiale, perché i criteri alla base del concorso non erano dissimili da quelli di rappresentanza nazionale con implicazioni politiche e diplomatiche abbastanza rilevanti, e nonostante i capolavori assoluti presentati in quegli anni, queste erano le implicazioni che sottendevano le scelte. Il collettivo della Quinzaine si è proposta con il motto “cinema en liberté” alla ricerca di una visione d’autore slegata a queste dinamiche di rappresentanza nazionale. A partire dal secondo anno, la sezione ha preso il nome che ha, affidata a Pierre-Henri Deleau che ne è stato il delegato generale per 30 anni e se vediamo la programmazione della Quinzaine degli anni ’70 i film che sono passati di qui sono incredibili: i primi film di Herzog, Scorsese, Lucas, Chantal Akerman… Le personalità transitate dalla Quinzaine in quegli anni hanno fatto la storia del cinema. Progressivamente, anche il concorso ufficiale ha dovuto riconoscere i frutti di quest’attività, con la creazione di Un certain regard, ad esempio. La Quinzaine aveva quindi raggiunto il suo obbiettivo, modificando anche l’assetto stesso del festival. Non si è mai fermata, nel fare questo, e non si fermerà mai. Ho molta voglia di mettere in pratica tutto quello che ho imparato, sperando di essere all’altezza del compito e sentendo sulle spalle i 50 di storia della Quinzaine.