Il poligono di Alcochete, a sud di Lisbona, è una delle più grandi basi militari in Europa. All’interno dei suoi 7539 ettari le esercitazioni vanno avanti senza sosta, mentre nel suo perimetro si svela una comunità composita: un naturalista studia il suono degli uccelli, un ragazzo suona il pianoforte sotto il rumore delle missioni simulate, un gruppo di astrofili si ritrova nella notte per scrutare la volta celeste ed elaborare teorie sul ruolo degli esseri umani nell’universo.

Campo, il nuovo lungometraggio di Tiago Hespanha (in concorso alla 60ª edizione del Festival dei Popoli, dopo essere stato presentato in anteprima mondiale a Cinéma du Réel) porta lo spettatore a confrontarsi con un cinema dove il reale dialoga con la dimensione del mito. Ancora una volta è la relazione straniante con un luogo a dar vita alla narrazione: se nel precedente Revoluçao Industrial (Visions du Réel 2014) il viaggio tra le rovine della Valle dell’Ave, nel Portogallo settentrionale, sembra profilarsi come la navigazione su una sorta di Acheronte post-industriale, in Campo la materia è quella di un grande archetipo della ribellione umana di fronte agli dei per il dominio sul mondo. La vicenda di Prometeo, evocata con una voce fuori campo lontana ed evocativa, attraversa il film per tutta la sua durata.

Il dialogo tra il reale, il luogo filmato e la materia mitologica parte prima di tutto da un approccio etimologico: il campo che dà il titolo al film è inteso non soltanto nella sua accezione spaziale ma anche e soprattutto nella sua origine latina, laddove la voce verbale căpĭo disegnava, più che la descrizione delle caratteristiche di un luogo, il vero e proprio atto di occuparlo ed espugnarlo. Il campo di Alcochete è in questo senso terra di conquista, per aria, terra e mare: quando non sono i militari, occupati in maniera incessante nelle loro esercitazioni, a trovare la propria ragion d’essere in quel luogo, più che nel conflitto e nella sua simulazione (mostrata dal regista come metafora esemplare del rapporto tra uomini, storie e miti), sono i civili a godere anch’essi del loro diritto di dominio sul territorio (così come le greggi che pascolano liberamente sul perimetro del poligono, estensione animale degli umani in quanto esseri addomesticati).

Il fuoco di Prometeo però sembra aver già esaurito nella Terra il suo afflato liberatorio, trasformandosi a sua volta in uno strumento di dominazione e annullamento. Talvolta, le conseguenze sull’habitat naturale sembrano diventare irreversibili: è il caso delle api, a rischio di estinzione, che la tecnologia vorrebbe sostituire con insetti meccanici, la cui prerogativa però non si limiterebbe unicamente all’impollinazione ma anche a scopi bellici. Quando poi il castigo sembra inevitabile e si profila l’arrivo della fine del mondo come capriccio divino, l’oblio richiude le ferite. Ma sarà sufficiente a cancellare il motivo della sfida di Prometeo all’autorità di Dio, ossia la natura dell’essere umano?

Nella notte un gruppo di astronomi amateur osservano la volta celeste. Qui si interrogano sulla natura dell’essere umano. È possibile ipotizzare una memoria quantistica? Tutti i nostri ricordi e le nostre informazioni, allora, sarebbero materia e, come tale, esisterebbero da prima che noi prendessimo vita? Se allora tutto di noi è materia, è solo la nostra natura mobile a distinguerci dalle rocce? Mentre il voice over evoca il viaggio di Gagarin, che trasmise al mondo la sensazione di vertigine del primo uomo che vide dal di fuori il globo terrestre, e il Golden Record inviato dal programma Voyager, come testimonianza dei suoni, delle arti e conoscenze del genere umano, un’irraggiungibile utopia sembra prendere forma: l’incontro dell’altro da sé oltre il cielo, nell’universo profondo, ultimo vero terreno di conquista.