Tenacia e perseveranza sono qualità dominanti dell’eroe contemporaneo. Un po’ vittima dai vaghi echi cristologici, un po’ folle idealista, l’eroe del nuovo millennio si ostina a combattere contro un sistema ritenuto irrimediabilmente corrotto. Ma è proprio nel racconto di questo insanabile antagonismo, nei toni furenti e assoluti del “noi contro loro”, che dialogo e responsabilità civile rischiano di frammentarsi, disgregandosi nella vacuità della parabola populista.

L’ultimo film diretto da Todd Haynes, Cattive acque, è un legal thriller basato sull’articolo “The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmare” di Nathaniel Rich, pubblicato nel gennaio 2016 sul New York Times Magazine. Le vicende dell’avvocato ambientale Rob Billot – che dal 1998 è stato animatore di una lunga battaglia legale contro il colosso della chimica DuPont – condensano in una narrazione tanto coesa quanto ansiogena un caso giudiziario durato più di un decennio. Dopo essere stato contattato da un allevatore di Parkersburg, in West Virginia, Billot portò all’attenzione pubblica le procedure con cui, dal secondo dopoguerra, la DuPont aveva sistematicamente esposto gli abitanti dello stato agli effetti nocivi di un composto cancerogeno riversato nelle riserve idriche locali. La sostanza, utilizzata nella remunerativa produzione di Teflon, non era stata regolamentata dall’EPA (l’ente per la protezione ambientale) ma pare che la DuPont ne conoscesse la pericolosità, scegliendo di continuare a produrla e smaltirla impropriamente per decenni.

Lo scandalo DuPont e le sue vicissitudini giudiziarie ben si adattano all’incedere ellittico della sceneggiatura di Mario Correa e Matthew Michael Carnahan. L’impostazione drammaturgica di Cattive acque è infatti scandita dai nessi di causa-effetto con cui lo spettatore viene traghettato tra udienze preliminari, processi giudiziari e scoperte disturbanti. Si tratta di una struttura rispettosa degli eventi all’origine del film, in cui la componente cronachistico-informativa viene alternata a un’atmosfera più spiccatamente emotiva. Complice il gelido livore della fotografia, la vicenda del film è costellata di episodi tensivi: lo stesso incipit – in cui tre giovani si immergono nelle acque contaminate di Parkersburg durante una bravata notturna – ricorda l’inizio di un horror, con l’unica differenza che il “mostro della laguna” stavolta non si mostra allo spettatore, ma resta in agguato nelle pieghe della narrazione. La sua è una presenza sottile ma costante, una minaccia che vive nelle furiose cariche di bovini avvelenati, nella raccapricciante esibizione delle loro masse tumorali (le stesse che si sviluppano nei corpi degli individui intossicati), negli illeciti commessi dagli uomini della DuPont, fino alle intimidazioni rivolte ai privati cittadini e a Billot stesso.

In questo clima angoscioso persino l’avvocato protagonista, interpretato da Mark Ruffalo, pare vittima degli eventi più che eroe in grado dominarli. Il film intreccia i sofferti progressi della battaglia legale con le sconfitte della sua vita professionale, famigliare e psichica. In tribunale Billot è tenace e determinato, ma questa energia fa da contraltare a una personalità stravolta, insicura fino alla paranoia – come mostra la suggestiva scena in cui l’avvocato teme per la propria vita nel lasciare un parcheggio sotterraneo, o come evidenzia l’incrinarsi del suo rapporto con la moglie Sarah (Anne Hathaway). È quindi evidente che, nonostante i successi di Billot, il mostro sia sempre in agguato sotto la superficie. E le forme del mostruoso sono molteplici: c’è la cieca fiducia con cui numerosi cittadini difendono l’operato della DuPont; c’è la disponibilità a sottoporsi ad analisi mediche solo se ricompensati economicamente; ci sono l’ostilità e la diffidenza che alimentano le paure di Billot, sminuendolo come impiccione o inefficiente.

Eppure Cattive acque liquida queste riflessioni in una conclusione rassicurante: il mostro non ci riguarda, il mostro è altro da noi. Esso è l’istituzione da combattere, il sistema corrotto che ci minaccia: la DuPont che ha avvelenato l’acqua, l’EPA che ha fallito nell’impedirglielo, i comitati scientifici da loro consultati, il Dipartimento di Giustizia americano – tutti fanno parte di un mostro colossale, una sorte di doppelgänger del Leviatano hobbesiano. Non c’è giustizia a questo mondo, siamo noi cittadini che dobbiamo crearcela e conquistarcela: è quello che afferma fieramente Billot a conclusione del film. Un messaggio vuoto, nella misura in cui riduce la pellicola a un’accusa cronachistica dei diretti responsabili, una fedele (ma poco originale) traduzione filmica dell’articolo di Rich, povera in consapevolezza critica. Così facendo, Cattive acque rifugge il confronto con la complessità di isterismi sociali e populismi odierni, assecondando quella tendenza contemporanea ad accusare invece che riflettere, a respingere invece che compiere sforzi autoriflessivi – col risultato di ridurre il dibattito pubblico a uno scontro tra mostri.