Prende avvio da un paradosso metacinematografico, Never Rarely Sometimes Always di Eliza Hittman, Orso d’argento all’ultima Berlinale. Che possibilità hanno due impacciate adolescenti di Cumberland County, Pennsylvania, di assaporare il fascino crudele di New York, sulle orme dei disperati antieroi scorsesiani, o degli alienati cowboy della New Hollywood? Nessuna, sembrerebbe suggerire la regista, qui al suo terzo lungometraggio dopo It Felt Like Love e Beach Rats. Perché il viaggio dell’eroe, nel cinema americano e oltre, è anzitutto un affare da uomini. E così, nonostante un ingannevole antefatto da opera indie sull’educazione sentimentale delle adolescenti, Never Rarely Sometimes Always si configura ben presto per quello che è. Non una storia sull’aborto alla Juno: piuttosto, una storia di narrazioni abortite. È proprio l’identità sessuale delle protagoniste – e solo secondariamente quella sociale e anagrafica – a impedire al film un classico sviluppo da road movie attraverso la Grande Mela. Tra impacci con le biglietterie elettroniche, soldi che scarseggiano fino a terminare e totale impreparazione alla spietata indifferenza della città, il mesto viaggio delle due ragazze verso una clinica abortiva per minorenni si trasformerà in un’eterna attesa. Circoscritta, non a caso, a una sala d’aspetto perenne come lo hub di Port Authority.

Nonostante i tentativi e le speranze di abbandonare questo luogo per connettersi ad altri indirizzi della sterminata mappa newyorchese, Autumn e la cugina Skylar vi rimarranno intrappolate, cercando di condividere, nei sali e scendi tra le banchine dei treni, il peso insostenibile del loro trolley e della loro innocenza. Consapevoli che il loro essere donne si identifica anzitutto in quel senso di nausea e di pericolo che le assale non appena si ritrovano preda dello sguardo altrui, costrette a negoziare la loro permanenza in un luogo con l’appetito esibizionista o voyeuristico di uno yuppie in giacca e cravatta, di un capo molesto o di un ventenne modaiolo in cerca di flirt.

Si potrebbero leggere mille retropensieri nel modo in cui Autumn guarda alla cugina e a quell’avvenenza puberale che rende quest’ultima oggetto di morbose attenzioni. Ma nemmeno a questo livello di lettura intende fermarsi lo sguardo affilato di Hittman, che si avvicina alle protagoniste più per isolarle dallo squallore del contesto esterno che per spingere lo spettatore a una gratuita empatia verso il loro vissuto. È la stessa Autumn, forse, a sentire di abitare una scena in cui tutto le è estraneo, relegato al fuori campo della sua prospettiva di provinciale marginalizzata persino dal proprio nucleo famigliare. Così la prossimità al suo volto, su cui si basa anche l’insostenibile scambio di battute che dà il titolo al film, diviene uno strumento per mostrare la sua impossibilità di essere un corpo accolto in uno spazio, fosse anche quello asettico e preordinato della clinica. A nulla servono le voci flautate delle infermiere e delle psicologhe, se poi la loro intonazione o i loro silenzi pesano come giudizi calati dall’alto. A nulla serve la premura di un’anestesia, se si è costrette a sentirsi “uncomfortable”, per usare l’aggettivo con cui Autumn descrive le sensazioni date dall’operazione a Skylar.

La vulnerabilità, la condanna a essere perennemente violate e ispezionate, fisicamente o moralmente – non manca una manifestazione antiabortista fuori dalla clinica, a ricordare un retaggio educativo di cui non ci si può liberare facilmente – è ciò che impedisce ad Autumn e alla cugina di essere protagoniste di una storia. Di pensare al proprio percorso come a un cammino di formazione, dove le libere scelte possano considerarsi davvero tali. Potrebbe aprirsi una voragine pronta a inghiottirle, dopo l’amara serata al karaoke (teatro in cui, non a caso, per tanto cinema contemporaneo si celebra la dimensione del proprio fallimento personale). Eppure, proprio nell’invisibilità, a pochi attimi dal precipizio, due mani possono ancora stringersi per esprimere un’altra intenzione, un’altra possibilità di contatto. Una storia nasce sempre quando si trova qualcuno disposto ad ascoltarla.