Un uomo fugge nella notte. Percorre a bordo di una moto una avenida notturna, fino a raggiungere la sommità di una collina che sovrasta la città. Pinky la guarda dall’alto: dopo essersi liberato dal giogo di una setta religiosa, medita vendetta nei confronti del leader che l’ha ingannato per anni, il Padre. Trova un rifugio improvvisato in un garage e lavora in un’officina dove vengono stampate magliette contraffatte. Il tentativo di ricostruire la propria vita sembra però fallire: per portare a compimento la sua vendetta, dovrà prima affrontare i suoi tormenti, che affondano nel subconscio violento di un intero paese, la Colombia, incarnata dalla figura di un bandito leggendario di altri tempi chiamato Desquite.
Los conductos, primo lungometraggio di Camilo Restrepo (premiato come miglior opera prima alla scorsa edizione della Berlinale), è un film visionario, un viaggio nell’oscurità che segue il cammino di un uomo alla ricerca del libero arbitrio, lontano da un mondo connotato dalla violenza, percorrendo vertiginosamente la sottile linea che separa il bene dal male.
Punto di partenza è la storia di Pinky, già comparso nel precedente cortometraggio Como crece la sombra cuando el sol declina e interpretato da Luis Felipe Lozano. La sua esperienza realmente vissuta in una setta religiosa, all’interno della quale ha trascorso otto anni della propria vita, e l’odio accecante accumulato nei confronti del leader, il Padre, costituiscono il nucleo narrativo del film. L’episodio è materia che il regista plasma per costruire un discorso filmico complesso e stratificato, fatto di simboli e segni che affondano nel background della storia recente della Colombia e che si intrecciano costantemente.
Il percorso di redenzione di Pinky parte da una messa in discussione profonda dei valori morali e spirituali della società, fino a derivare in una dimensione fantastica e trascendentale. È in questo senso che avviene l’evocazione di Desquite: il bandito leggendario che si rese protagonista negli anni ’50, nel periodo della storia colombiana conosciuto come La Violencía, di numerose azioni sanguinose nei confronti dello Stato, dei grandi proprietari terrieri e degli esponenti del Partito Conservatore. Questa figura controversa, che arrivò ad assumere il ruolo di giustiziere sociale agli occhi degli oppressi, incarna ne Los conductos una sorta di doppio di Pinky, interpretato da Fernando Úsuga Higuita ma doppiato dal regista Camilo Restrepo. Le loro identità si specchiano e si confondono nel proseguo di questo viaggio nell’oscurità, indossando talvolta una maschera diabolica: come il demone della satira di Luis Vélez de Guevara El diablo cojuelo (1641), descritto dalla voce del personaggio, che svela con uno sguardo a volo d’uccello sulla città la meschinità e le ipocrisie nascoste della società.
In questa tensione tra alto e basso, bene e male, viene evocato anche il clown Tuerquita, protagonista insieme al padre Pernito e al fratello Bebé di uno show televisivo colombiano divenuto celebre per le denunce rivolte alle istituzioni corrotte del Paese. Una figura poi finita in disgrazia, travolto dalla tossicodipendenza e costretto a mendicare per strada, infine sopravvissuto miracolosamente e consacrato qualche anno dopo ad una cieca fede religiosa.
La dimensione poetica e quella evocativa nel cinema di Camilo Restrepo prevalgono rispetto all’approccio realistico: il suo sguardo non sembra concentrarsi tanto sulla realtà in sé, quanto sulle tracce che essa imprime sulla materia, ovvero i corpi di chi filma, i luoghi che essi abitano. Un approccio chiaramente impressionista, riaffermato in primis dalla scelta di girare ancora una volta con il 16mm, avvalendosi di una palette di colori decisamente tendente verso il chiaroscuro. Los conductos, in questo senso, si inserisce all’interno di un percorso artistico che in questi anni ha portato il cineasta colombiano ad affermarsi, con i suoi cortometraggi, come uno degli autori più riconosciuti nei festival internazionali.
Si potrebbe quasi affermare che questo primo lungometraggio riunisca quelle voci che emergevano dai film precedenti in una nuova tensione creativa, capace di dar vita a un’opera nuova, differente e grandiosa da tutto ciò che si può osservare nel panorama cinematografico contemporaneo. Dopo la dimensione catartica esplorata nell’abbagliante dittico ad ambientazione africana formato da Cilaos e La Bouche, Restrepo riporta nel suo terreno, la Colombia e in particolare il tessuto urbano di una città segnata dalla violenza come Medellín (La impresión de una guerra), il carattere visionario e una tensione trascendentale che supera la traccia rilasciata sulla materia, oltrepassando la cornice terrena dei conflitti tra i viventi. Questo altrove cinematografico è il solo possibile terreno di riconciliazione tra il mondo dei morti e quello dei vivi, tra le vittime delle ingiustizie e quello dei carnefici. Un terreno che può unicamente essere condiviso con la dimensione della poesia: è lì che ritorna Desquite, evocato nel finale dalle parole del poeta Gonzalo Arango; versi liberi che si interrogano sul futuro di un Paese e, con esso, di un’umanità logorata dai conflitti, alla ricerca disperata di una comprensione più profonda dell’esistente, che si traduce in un imperativo etico, estetico e politico.
Io mi chiedo sulla sua tomba scavata nella montagna: non è possibile che la Colombia, invece di uccidere i suoi figli, possa renderli degni di vivere?
Se la Colombia non può rispondere a questa domanda, profetizzo allora una disgrazia: Desquite risusciterà, la terra sarà di nuovo innaffiata di sangue, dolore e lacrime.
“Yo pregunto sobre su tumba cavada en la montaña: ¿no habrá manera de que Colombia, en vez de matar a sus hijos, los haga dignos de vivir?
Si Colombia no puede responder a esta pregunta, entonces profetizo una desgracia: Desquite resucitará, y la tierra se volverá a regar de sangre, dolor y lágrimas.”
Gonzalo Arango, Elegía al Desquite