In Venuto al mondo (2008), romanzo di Margaret Mazzantini nel quale il dolore personale è inscritto entro quello delle guerre jugoslave, l’autrice sapeva evocare un dettaglio fondamentale attraverso l’istantanea di un’immagine metaforica: «Non so dire da che parte dentro di noi cola l’amore prima di fermarsi nella pancia. La guerra mi colava dentro dalle stesse fessure dove un tempo era passato l’amore, e adesso si era depositata nelle mie viscere, in profondità».

Come la guerra prenda possesso dei corpi e soppianti le vie che prima attraversavano gli affetti, è raccontato con humour e catartica tenerezza in Gli eroi non muoiono mai, lungometraggio d’esordio di Aude Léa Rapin, presentato nel 2019 alla Semaine de la Critique di Cannes e ora disponibile su Prime Video e MUBI, grazie ad un progetto di distribuzione promosso dal My French Film Festival che ha permesso l’importazione di diverse pellicole francesi sulle piattaforme di streaming.

Si parla quindi di corpi, colti nella loro fisicità e nella loro astrazione, nello spazio sociale e in quello geografico, nel corso del tempo. Questa molteplicità sembra abitare il corpo del protagonista Joachim che, dopo essere stato fermato in strada da un pazzo, si è convinto essere la reincarnazione di un certo Zoran, militare bosniaco morto il preciso giorno della sua nascita, 21 agosto 1983, data che fa perpetuo ritorno nella prima metà della storia. Ma c’è anche il corpo fantasma ormai sepolto dello stesso Zoran, o dei tanti Zoran sparsi per il paese ferito; il corpo metafisico di un conflitto che ancora oggi serpeggia in ogni vicolo, sopravvive su ogni muro tartassato dai fori di proiettile; la corporeità tangibile di un territorio mutilato e sordo in cui, lo dice in una conferenza stampa la stessa autrice, si viene completamente investiti dalla malinconia del fallimento e da un sentimento di impotenza. Invisibile infine è il corpo che veicola la stessa macchina cinema, presenza raddoppiata al punto da trasformare il film nel processo di creazione di un documentario, finestra inedita per interrogare l’amicizia tra Joachim e la filmmaker Alice (Adèle Haenel), almeno nei suoi parametri più stringenti: fiducia, rispetto, collaborazione, supporto.

Lo spazio-concetto dell’Est Europa, goffamente definito dal senso comune e privo dei confini puntuali che la Storia imporrebbe, è sfruttato come terreno fertile sul quale innestare un discorso sull’identità. Joachim è assolutamente convinto della veridicità della propria reincarnazione poiché ingabbiato nell’angoscia del post mortem, imprigionato in una fisicità dalla quale è difficile congedarsi; quale sogno può considerarsi più dolce di quello in cui ci si spoglia delle proprie membra non più perché costretti, ma per la curiosità di accedere ad una nuova vita? La vivacità di questo spirito nuovo a volte trapela con ironia, altre vacilla davanti all’impietoso quadro bosniaco. La scelta di posizionare in questo luogo un percorso intimista così doloroso e alienante produce il proprio valore verso il finale: Joachim incontra l’anziana moglie del suo Zoran, riappacificandosi col proprio io, passato e presente, e soprattutto con il senso di morte che perpetuamente incombe. Nell’incontro e nell’abbraccio che si consumano, sembra inscriversi l’immagine di una mano tesa al popolo ferito: un invito alla riappacificazione con il proprio spirito, la propria origine e, inevitabile conseguenza, la propria fine.

Escluso l’incipit, la Rapin sceglie di raccontare lo svilupparsi delle vicende tramite la struttura narrativa del mockumentary: la visione di ciò che accade è condizionata dallo sguardo soggettivo della macchina da presa, che non ha la possibilità di agire come osservatore esterno assoluto e che quindi esprime le limitazioni della regia di Alice e delle esigenze degli altri corpi in scena. Un viaggio parziale che non ha la pretesa di offrire consolazioni, ma che si stringe intorno all’angoscia nel tentativo di potenziare, proprio attraverso lo sguardo, il nostro sentire, scoprendo l’alterità che attende.