Per il suo lavoro di adattamento di una tragedia letteraria, Aleksandr Zeldovich ha optato per una risposta coerente con il clima post-moderno della fine delle grandi narrazioni: la riduzione del tragico da modo culturale di un popolo di intendere l’esistenza a stile, marca formale, metafora ad uso dello spettatore. Nel suo Medea, presentato in Concorso internazionale a Locarno 74, il tragico non è la sofferta operazione di normalizzazione del caos in senso – dove il termine sofferta sta a indicare fallimentare, perché costretta ad arrendersi alla commovente oscurità della vita – ma è piuttosto la dissoluzione riuscita di questa operazione, una via di rappresentazione tra le tante, un involucro interessante in cui fare agitare dei conflitti, altrettanto significativi. D’altronde non sembra esserci legittimità teorica nell’aspettarsi che il tragico possa essere considerato nel contemporaneo più di uno stile (trasportabile tra Russia e Israele) chiamato a sopportare una tematica profonda. Per Zeldovich questa tematica non è la psicologia di una donna in lotta con le definizioni, lo scontro tra culture o l’essenza del male, anche se questi spunti rientrano come per contratto anche nel suo adattamento contemporaneo.

A interessargli è piuttosto la lotta tra l’inevitabile irreversibilità dell’esistenza e il desiderio di vivere in eterno. A questo conflitto centrale del film fa riferimento, tra i numerosissimi segni che il film generosamente propaga durante il suo sviluppo (un po’ con ansia di significazione), l’opposizione di visioni tra la protagonista e suo marito (idealmente Medea e Giasone), che sembrano non concordare sul valore simbolico della polvere: in visita a un centro di polverizzazione organizzato per produrre cemento, la donna spiega la polvere ai suoi figli come la prova dell’inevitabile disfacimento verso cui tutto va incontro; per suo marito invece la polvere è semplicemente il risultato di un circuito dell’economico, un anello della catena di produzione che continua a rigenerarsi. In questo scontro di prospettive esistenziali si misura il film di Zeldovich, che cerca di mostrare la distruzione del secondo punto di vista a causa dell’incedere apocalittico del primo.

Per Medea tutto è annientamento: la famiglia è una zavorra da eliminare, la fede una sottile uniforme, il desiderio sessuale una fame secondaria, il corpo un’architettura in corso di rapido deperimento. Il suo desiderio (come rivela una crisi centrale nel film) è di annullarsi in una conto numerico all’indietro, come lancette in una bomba che esplode scomparendo, farsi niente in adorazione di un tutto identificato nel marito. Ovviamente quest’ultimo liquida questa prospettiva come follia incomprensibile: l’idea che tutto finisca non coincide con i principi di crescita numerica di cui propugna l’idealità. Tra l’amoralità nichilista della prima ipotesi di esistenza, che vede nella vita solo erosione inarrestabile, e l’immoralità della seconda, che organizza l’esistenza per sfruttamento, si consuma uno scontro di modelli non sconosciuti, anzi. Modelli ingigantiti dalle lenti dello stile tragico, strumento di espressione o di espansione drammaturgica: non è un caso che lo scontro decisivo tra Medea e Giasone avvenga al bordo di un tempio ridotto in macerie, in cui i connotati dei partecipanti non sono quelli dei giganti letterari ma quelli di interpreti ingigantiti da un binocolo. [Leonardo Strano]


Tra una tempesta e l’altra

wheter the weather is fine
È buio. L’unica cosa che si sente è il rumore dei tuoni, del vento e della pioggia. Si può solo immaginare quello che succede. Quando Miguel si sveglia, la città è distrutta. Inizia così Kun maupay man it panahon (Whether the Weather Is Fine), primo lungometraggio di Carlo Francisco Manatad, presentato a Locarno 74 nel Concorso Cineasti del presente. Il film segue le vicende di Norma e Miguel, madre e figlio, mentre cercano di rimanere uniti e sopravvivere spostandosi in una città devastata dalla tempesta; un’altra tempesta, però, sta arrivando.

Il film pedina i movimenti del nucleo familiare di Miguel (di cui fa parte anche Andrea, la sua ragazza) in quello che sembra un campo di battaglia e invece altro non è che una città distrutta dalle forze della natura (il film si ispira alla devastazione provocata nelle Filippine dal tifone Haiyan nel 2013); forze di cui non solo è possibile osservare la potenza, ma sotto la cui minaccia i personaggi si trovano costantemente. Le autorità però continuano a rilasciare dichiarazioni contrastanti: “la tempesta sta tornando”, “non c’è più nessun pericolo”, “dirigetevi verso il porto permettervi al sicuro”, “tornate ai vostri alloggi e state tranquilli”. La situazione è assurda e sono assurdi gli eventi a cui si assiste in qualità di spettatori coinvolti emotivamente nello spazio di una dimensione irreale, tra la fine di una tempesta e l’inizio della successiva, come nell’occhio del ciclone. Un momento di calma e pace mentre tutto intorno impazza il caos.

Il contesto, la visione d’insieme è negata: il regista sceglie un formato estremamente stretto, forse addirittura un 1:1, per far sì che lo sguardo dello spettatore si concentri solo sui personaggi e sul loro viaggio senza rischiare di distrarsi nell’ambiente circostante. Uno spazio che tuttavia, anche se non è visibile, esiste ed è disseminato di macerie, cadaveri e persone smarrite – tantissime persone, come dimostra l’infinita lista di comparse nei titoli di coda. Il formato ristretto intrappola chi guarda in questa dimensione insieme ai personaggi, lasciandolo in balia della loro storia come loro sono in balia delle forze atmosferiche. Nell’occhio di questo ciclone gli adulti non sanno cosa fare, quando parlano risultano incomprensibili, non hanno una direzione: perso questo punto di riferimento, sono i ragazzi, e ancora di più i bambini, a prendere in mano la situazione e a farsi carico delle responsabilità. La rappresentazione della realtà è estremamente attenta a mettere in scena un mondo fatto a pezzi dal cambiamento climatico e una lotta per l’ambiente che sempre di più trova i suoi difensori principalmente tra le nuove generazioni.

Il film però non è – per fortuna – solo una metafora o una denuncia meramente didattica del cambiamento climatico: la storia si sviluppa seguendo Miguel e Norma, che prima di ritrovarsi assieme e andare verso un luogo sicuro dovranno trovare il motivo per cui desiderano la salvezza, ognuno con le proprie forze. Tra gente che canta e balla in mezzo alla distruzione, processioni sacre e persone che ringhiano come bestie feroci, Kun maupay man it panahon affascina e fa riflettere, riuscendo a parlare a tutti. Perché ogni momento di pace nella vita non è che una tregua tra la tempesta appena finita e quella che deve arrivare. I fuochi d’artificio – lanciati nel film – scoppiano in cielo e rimbombano come tuoni, ma non per questo sono meno belli da ammirare. Si può sorridere anche sotto la pioggia. [Mattia Borgonovo]

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