La caserma di polizia è un luogo che permette di capire bene il funzionamento dei presupposti sottintesi a ogni scambio linguistico. Se si entra in un presidio istituzionale si capisce facilmente, più che altrove, che ogni forma di comunicazione condotta in tale contesto è disciplinata da rigide regole a priori, sottoscritte in maniera inconscia da tutti i parlanti: in quanto costrutti del tutto arbitrari nella loro disposizione e del tutto interessati a disciplinare nelle loro intenzioni, questi presupposti sono stati da tempo identificati come marcatori privilegiati dei rapporti di potere presenti (nascosti) in ogni espressione linguistica. Sembra interessante capire come di queste presenze più o meno visibili si occupino il cinema, l’immagine, la messa in scena: nel caso di The Police Estate, mediometraggio diretto da Antoine Dubos e presentato nel Concorso Internazionale del 62esimo Festival dei Popoli, per esempio, la questione dei presupposti è centrale e anche dirimente, perché riguarda il valore dell’immagine e cosa il cinema possa fare in merito al potere.

Anche se non è subito chiaro, è verso questi marcatori che sembrano rivolgersi le strategie di messa in scena del film. Dopo un prologo introduttivo giocato sull’ambiguità di ciò che si vede – in un quartiere immerso nella notte una squadra di polizia arresta un uomo che si dichiara colpevole di violenze sulla compagna – Dubos rivela infatti cosa si sta effettivamente guardando: non un pezzo di mondo ma un centro di addestramento, costruito in scala 1:1 e organizzato per formare gli agenti negli interventi sul campo tramite simulazioni guida per l’azione nel mondo esterno. Lo scarto di senso della funzione della messa in scena, per cui si passa da un racconto di finzione iperrealista a un documentario di osservazione diretta, è ciò che accende l’attenzione sull’esistenza dei presupposti: mentre si guarda la scena di presunta realtà sulla violenza domestica non è messa in dubbio la legittimità dell’azione degli agenti, perché in quello spazio finzionale la realtà si dà come pienamente autogiustificata, e non si percepisce nessun a priori in funzione. L’improvvisa rivelazione sulla natura fittizia, finzionale dell’azione (si tratta di una simulazione), mette invece in evidenza per inspessimento, opacizzazione, ciò che prima era trasparente: lo statuto scenico, del tutto arbitrario e sostituibile, del fatto. Grazie allo slittamento compaiono dei presupposti che da impliciti e invisibili diventano non solo impossibili da ignorare, ma anche difficili da accettare: la violenza, lo squadrismo, il razzismo adoperati nell’azione sono tutti aspetti pregiudizievoli messi in pratica solo perché forti di una legittimazione a priori (“Si fa così, sono le regole della polizia, è meglio per tutti”).

Dubos sembra voler rilevare in questo modo il presupposto occultato di un linguaggio, cioè la forza disciplinante di alcuni preconcetti legiferati attraverso il loro nascondimento: la prassi di azione che si terrà nel mondo reale (debitamente tenuto in un fuori campo che coincide con la nostra esperienza spettatoriale quotidiana) è inventata in una fittizia “città dell’ordine”, in uno stato di polizia simulato. Procedendo a ritroso dal discorso (ciò che accade nel mondo) al suo presupposto virtuale (ciò che accade nel campo d’addestramento), e concentrandosi su questo momento a priori, Dubos inverte l’intuitivo uso della rappresentazione per fare emergere il reale: impegna la messa in scena non nella naturalizzazione della finzione, ma in una messa in abisso di formalizzazioni che perdono sempre di più il contatto con il reale e allo stesso tempo dicono di una bruciante lontananza da esso. Non si ferma cioè a mostrare la simulazione della polizia, ma, posizionando la macchina in punti che si potrebbe definire accattivanti, la incornicia nel linguaggio del più superficiale immaginario di consumo, che costituisce la realtà di chi si approccia al mondo della polizia. Il diffuso cortocircuito secondo cui l’approccio alla realtà avviene tramite la finzione è qui letto dalla prospettiva di chi intende il cinema come forza di disinnesco, e l’immagine cinematografica come momento di possibile ribaltamento.

Il reale non è che la consapevolezza che il mondo è intriso di rapporti di potere e costituito da continui interventi arbitrari delle istituzioni che regolano il corso degli individui, oltre che da continue interpolazioni prodotte dalle nostre visioni del mondo e dalla presenza di un immaginario collettivo. Il cinema può cogliere questo reale, offrendo una fortissima arma di disinnesco nei confronti dei meccanismi di potere che provano a naturalizzare i loro arbitrii, perché è esso stesso una macchina naturalizzante, in grado di produrre uno scarto quando si auto-denuncia come tale. The Police Estate offre in questo senso l’immagine di un potere (il corpo di polizia) mai così problematico per la società – e il film è stato iniziato proprio in parallelo alle proteste francesi dei gilet jaunes nel 2018 – nel punto della sua debolezza costitutiva; un potere violento e potenzialmente incontrastabile, completamente dissociato dai limiti della propria prospettiva (infatti privo di autoironia, come sottolinea l’occasionale comicità involontaria notata dal regista) e anzi, rincuorato dalla stessa struttura di legittimazione lasciata intatta da narrazioni disinteressate a ragionare sulla loro non indifferente, anche quando superficiale, messa in scena.