Daniel è un celerino di origine africana del Reparto Mobile di Roma. Dall’amministrazione comunale, lui e i suoi colleghi ricevono l’ordine di sgombrare un palazzo occupato in centro, dove vivono 150 famiglie, tra cui sua madre e suo fratello.

Da questo spunto è nato Il legionario, film d’esordio di Hleb Papou, scritto con Giuseppe Brigante ed Emanuele Mochi. Un film che con la forza di quest’idea racconta una storia attraversata da conflitti familiari, professionali, politici, in cui i personaggi sottostanno a un potere invisibile che nel bene e nel male non si mostra mai, se non attraverso i suoi emissari (il prefetto, il sacerdote). Una storia che non si accontenta di “svolgere un compitino” ma che, attraverso un lavoro di ricerca immersivo e meticoloso, mette in discussione luoghi comuni e stereotipi alimentati proprio da un cinema autoriale pigro e distante dalla realtà. Rebecca Ricci e Claudio Balboni ne hanno parlato con Hleb Papou, che si è aggiudicato il premio come miglio regista esordiente nei Cineasti del presente di Locarno 74.

Filmidee: Tu sei nato in Bielorussia e poi ti sei spostato molto piccolo in Italia. In rapporto al cinema, come ti sei avvicinato, che tipo di percorso hai avuto?

H.P.: Sì, ho iniziato a venire in Italia in vacanza, nelle Marche, a Cagli in provincia di Pesaro-Urbino. E poi a undici anni mi sono trasferito definitivamente in Lombardia, a Lecco. Quando vivevo in Bielorussia e avevo nove-dieci anni un mio amico aveva una vecchia telecamerina VHS che registrava a nastri e aveva anche diversi fucili da soft air. Ci divertivamo a ricreare delle scene d’azione ripescate dai film americani degli anni ’90. Questo è stato il primo approccio inconsapevole. Poi abbiamo iniziato a fare i primi cortometraggi con montaggio in camera… robe con scazzottate e pistole. Durante l’adolescenza ho iniziato a guardare un sacco di film, ad appassionarmi sempre di più. Alla fine del liceo mi sono chiesto perché non provare a fare di questa passione un mestiere, anche perché non vivendo a Roma non sapevo quali fossero le dinamiche, quindi in qualche modo anche questo mi ha salvato, perché ero molto inconsapevole. A volte meno cose sai meglio vai avanti. Se avessi ascoltato gli altri non sarei nemmeno qui. Mi sono iscritto al DAMS per poi entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove ho incontrato Emanuele Mochi e Giuseppe Brigante, gli sceneggiatori del film.

Filmidee: Per certi versi Il legionario colloca le sue premesse estetiche lontano da certe ricorrenze del cinema italiano. Che cosa volevi evitare e a cosa stavi puntando? Sei soddisfatto del risultato?

H.P.: Volevo evitare i cliché, gli argomenti triti e ritriti. Io, Mochi e Brigante puntavamo a una storia dell’Italia del presente, andando oltre gli stereotipi, cercando di fare un racconto più onesto possibile. Non potrei mai essere soddisfatto perché quando vedo il film vedo il Covid, vedo gli imprevisti e le difficoltà, i 19 giorni di ripresa. Quando ero in post produzione ero sicuro che stesse venendo bene, adesso non lo so.

Filmidee: Vorremmo che raccontassi com’è nato lo spunto di questa storia e come ti sei rapportato nel raccontare un mondo che fondamentalmente è lontano dal tuo. Qual era la vostra posizione di autori rispetto al soggetto che trattavate?

H.P.: Nasce dall’immagine che ho avuto nel 2015 di un celerino nero: pelle nera col casco da ordine pubblico, con la combat zest in divisa da celerino. Poi con Mochi e Brigante poi abbiamo poi iniziato a pensare a cosa avrebbe potuto fare. Doveva essere nero perché è più riconoscibile, perché rompe gli schemi e perché per me è un simbolo di seconda generazione. Il diritto ad autodeterminarsi… Il reparto mobile poi si dice che sia un reparto di estrema destra, perché non entrarci? Quindi questa è stata la prima immagine di lancio immaginaria ma tutto ciò che è seguito dopo è ripreso dalla realtà: l’elettricità staccata, l’intervento del sacerdote, il palazzo occupato vero e proprio che si trova nel quartiere Esquilino (un quartiere borghese di Roma, centrale) e quindi tutto ciò che ne consegue è ispirato alla realtà. Non sapevamo nulla di questo mondo, ma ci piaceva. Ci interessava scoprire di più sul reparto mobile, sulle case occupate. Io all’inizio di questo lavoro avevo degli stereotipi che sono stati totalmente superati. Mi considero uno spettatore medio, nel senso che vorrei imparare qualcosa in più quando vedo un film. Se anche la mia conoscenza guardando un film è aumentata dell’1% allora va bene. Raccontiamo che chi entra nella casa non è per forza un comunista e chi entrava nella celere non è per forza un fascista.

Filmidee: Cos’era che ti attraeva di questi due mondi?

H.P.: Sicuramente il fatto che sono mondi chiusi e con le loro contraddizioni, perché sono mondi radicali e quindi microcosmi che si trovano all’interno della società. Paradossalmente sono anche mondi simili tra loro, perché sono entrambi chiusi appunto, ci sono regole rigide e si assomigliano, c’è un nesso invisibile.

Filmidee: Riguardo al palazzo occupato, avete scelto una denotazione molto chiara, dedichi anche un’inquadratura a via di Santa Croce in Gerusalemme. Ci chiedevamo se questa fosse una scelta di un certo tipo, una necessità.

H.P.: Volevamo sicuramente raccontare un palazzo non periferico, non da Tor Bella Monaca (il cinema italiano recente si è concentrato sulle periferie romane). Noi volevamo fare un racconto di un palazzo centrale in un quartiere borghese, e appunto è lì.

Filmidee: Avete realizzato il film in soli 19 giorni, superando anche le difficoltà legate alla pandemia: ci chiedevamo come fossero andate le riprese all’interno di un condominio in lockdown.

H.P.: Il condominio lo conosciamo dal 2016 perché io, Mochi e Brigante lo frequentiamo appunto dal cortometraggio del 2016. Già tutto il comitato di gestione e quelli dello Spin Time (gruppo sociale che organizza eventi dentro al palazzo) ci conoscevano e si fidavano. Avevano visto il cortometraggio, sapevano che non ero lì a fare sciacallaggio e questo ci ha aiutato. Poi la produzione ha fatto un contratto e abbiamo assunto diversi abitanti, abbiamo fatto un casting di comparse, portando lavoro nel palazzo.

Filmidee:  Qual è la scoperta che è andata contro i tuoi stereotipi?

H.P.: Abbiamo scoperto che nel palazzo occupato c’è chi vota Lega, c’è gente di destra… ci sono tantissime nazionalità che devono condividere gli spazi comuni e vivere insieme e non sempre è facile.

Filmidee:  Ci sono delle tensioni?

H.P.: Sì, è un ambiente tosto, quando sento qualcuno dire «Ah che figo un palazzo occupato, mille culture…», penso che quando ho fatto un’esperienza lì io non vedevo l’ora di tornare a casa mia e mi sentivo molto fortunato a potermi permettere un affitto. Ci sono diversi tipi di occupanti: c’è gente che anche se ha i soldi gli va bene così, e c’è gente che sta contando i giorni per andare in un appartamento decente e pagarsi l’affitto. Questa cosa ci ha aperto gli occhi.

Filmidee: E nella celere?

H.P.: Nella celere, quando si è in strada ad affrontare l’azione, tu puoi essere di qualsiasi origine e etnia ma finché indossi la divisa di OP (ordine pubblico) c’è una reciproca protezione, un cameratismo famigliare. All’interno della caserma c’è uno schiacciamento di idee. I celerini stanno spesso fra di loro, hanno la tendenza a pensarla allo stesso modo, e quindi anche il gruppo del film è sicuramente un gruppo di destra. Daniel, il protagonista del film, per me non lo è, è uno molto bravo a fare il proprio lavoro e viene riconosciuto per questo. Facendo ricerca ho notato che chi la pensa diversamente in genere viene allontanato, magari dal gruppo alfa, ecco.

Filmidee: Cambiamo discorso per parlare di come hai raccontato i personaggi di Daniel (Germano Gentile) e di suo fratello Patrick (Maurizio Bousso). Vorremmo parlare della scelta degli attori. Com’è stato lavorare con loro? C’è stato un confronto in sceneggiatura?

H.P.: Volevamo andare oltre gli stereotipi da ogni punto di vista e questo vale anche per gli attori, e anche loro non vedevano l’ora di fare un ruolo normale al di fuori del bodyguard o dello spacciatore di San Lorenzo. Con Germano Gentile abbiamo fatto il cortometraggio e ha superato egregiamente la prova. Riguardo a Maurizio Bousso, secondo me era l’attore migliore per quel tipo di ruolo. Poi ho fatto un sacco di prove con loro due perché sapevo che sarebbe stato difficile: le riprese ridotte lo richiedevano. Abbiamo lavorato sul minimo indispensabile poi restava a noi renderlo il più credibilmente possibile, è stato bravo l’aiuto regia Davide Labanti e molto bravo il direttore della fotografia Luca Nervegna.

Filmidee: C’è anche il discorso dei personaggi secondari…

H.P.: Tutti i personaggi sono ispirati alla realtà, dal primo all’ultimo, oppure interpretano direttamente loro stessi.

Filmidee: Abbiamo apprezzato molto la scena dell’assemblea in cui è chiaro che sia un microcosmo preciso.

H.P.: Quella scena… in un giorno ci siamo ritrovati a girare dieci pagine di sceneggiatura. Abbiamo dovuto fare due assemblee e la festa di Valencia. Quando vedo quella scena penso sempre a quell’aspetto lì.

Filmidee: Il legionario è un film pieno di conflitti su ogni livello: fisico, emotivo, all’interno della famiglia, sul lavoro, generazionale (il modo in cui vede il mondo Daniel e il modo in cui lo vede la madre). E questo assomiglia un po’ al mondo di oggi che vive di tantissime spinte individuali, ci si vede spesso costretti a scegliere tra il lavoro e gli affetti… pensi sia un film che assomiglia al presente?

H.P.: Bella domanda, non so perché mi è venuta in mente una frase di Fofi che dice che viviamo in un’epoca di castrati volontari. Molti si sono volontariamente castrati per fare il dispetto a qualcuno. C’è un continuo subire senza affrontare col petto alto la sfida, la realtà, poi questa cosa nel film… Daniel cerca di mediare la situazione, cerca di tenere due piedi in una scarpa, un piede in due scarpe e poi quando decide di reagire si rovina. Di base il mio obiettivo era quello di raccontare l’Italia del presente andando contro gli stereotipi, però quello che dite è vero, e anche quello che dice Fofi: viviamo in una società un po’ moscia.

Filmidee: Daniel tra l’altro non è un personaggio che si schiera…

H.P.: Daniel sta vivendo un piccolo sogno borghese. Ha la casa in una buona periferia urbana, ha una compagna bianca che aspetta un figlio.

Filmidee: È integrato.

H.P.: Sì… è integrato da un punto di vista giornalistico, cioè per alcuni aspetti nemmeno io mi sento integrato e non me ne frega niente: non voglio nemmeno integrarmi.

Filmidee: Il legionario ha un soggetto magnifico, ficcante. Ti mette in una posizione scomoda come spettatore.

H.P.: Questa cosa non riesco a percepirla perché non capivo se è un buon film o un cattivo film. Ho la sensazione che in qualche modo sia riuscito. Volevamo semplicemente raccontare qualcosa di nuovo in Italia senza l’arroganza di insegnare niente, volevamo mettere un punto esclamativo su questo fatto qui, sul fatto che l’Italia è cambiata.

Filmidee: Soggetto magnifico ma anche molto complicato: hai mai pensato fosse troppo come esordio?

H.P.: No, avevo voglia di raccontare questa storia e non vedevo l’ora di farla: ovviamente avevo paura.

Filmidee: Adesso hai delle storie in cantiere?

H.P.: Abbiamo un’idea e pare che a settembre partiamo.

Filmidee: Squadra che vince non si cambia?

H.P.: Per adesso abbiamo trovato il nostro equilibrio, perché no.

Intervista realizzata durante la 74ª edizione del Locarno Film Festival, agosto 2021.