Prima di scrivere di Petite Maman è necessario riflettere sull’ambiguità della parola “immagine”, che deriva dal latino imago, inis: da un lato “imitazione”, dall’altro “forma visibile”. Significato complementare che indica l’immagine come riproduzione della realtà in una formalizzazione. Non una riproduzione sensibile, quindi, ma prodotto da una costruzione formale. Per questo si ritiene che l’immagine contenga in sé una natura fantasmagorica.

È su questa oscillazione di senso che Sciamma lavora con Petite Maman, creando un doppio, un’imitazione delle protagoniste Nelly-Marion che incastrate nel dispositivo cinema permettono viaggi al di là dell’umana concezione (fantasmagoria), lavorando sul visibile e la sua costruzione. Dopo la morte della nonna, Nelly e i suoi genitori svuotano la sua casa. La madre, Marion, le racconta di una capanna che aveva costruito da piccola nel bosco. D’improvviso Marion parte lasciandola sola con il padre, nel bosco troverà una bambina intenta a costruire una capanna, che si chiama Marion.

Una bambina in dialogo con un’anziana signora, degli adii ripetuti e una stanza vuota. Manca un’immagine nel piano sequenza che apre Petite Maman: quell’ultimo impossibile saluto alla nonna prima di morire. Da questa mancanza iniziale si genera il moto di azione della piccola Nelly, traino portante del film, che chiede, disturba, sentenzia e sgrida i suoi genitori. Nelly è alla ricerca di un’identità, ma ovunque lei si volti, nessuno le restituisce lo sguardo, a partire dalla madre presentata di spalle, intenta a guardare fuori dalla finestra in una di quelle inquadrature pittoriche (con figura al centro) già tipiche del Ritratto della giovane in fiamme. Anche quando illuminata con un fascio di luce diretto, la madre è già immagine spettrale. Non c’è scambio di sguardi e per questo non c’è dialogo tra madre e figlia. “A me interessa, io sono una bambina” dice Nelly. “I bambini ora devono andare a letto” risponde la madre, chiudendo un mondo per lei inaccessibile.

Marion presenza-assenza del film fugge dalla casa-ricordo della sua infanzia, e così Nelly dovrà trovare un modo tutto suo per superare il dolore, ed è proprio qui che da un gioco in solitaria con il fuoricampo (perché i film di Sciamma dialogano soprattutto con il vuoto: della musica, delle inquadrature) entrerà in gioco (o in campo) una bambina che la inviterà a costruire una capanna. Simbolo di accoglienza, la costruzione del gioco avvolge Nelly in un nuovo calore con le tonalità fredde della casa che tornano a essere calde e complementari. Il gioco diventa il pretesto per entrare in un’altra dimensione, un deus ex machina che permette, come già aveva capito Agamben, di “profanare il sacro”, in quel non-luogo dove tutto può accadere. Ma la profanazione del ludico non riguarda soltanto la sfera religiosa. I bambini, che giocano con qualsiasi oggetto passi loro tra le mani, trasformano in un giocattolo anche ciò che non appartiene a quella sfera, donando così alle cose una nuova dimensione di uso. È il gioco che permette a Nelly di entrare in una macchina del tempo e di tornare a dialogare con la piccola-madre. “Il gioco disattiva i dispositivi del potere e restituisce all’uso comune gli spazi che aveva confiscato”, spazi uguali, quasi indistinguibili quelli di Nelly e Marion, per permettere al “sacro” (l’amore, per esempio) di tornare a riempire gli spazi che aveva lasciato vuoti: nel letto, nella casa. Sciamma attua allora un elogio alla profanazione del senso, del collegamento logico, tutto si svolge in un non-luogo a cui gli adulti non hanno accesso perché ormai la loro fantasia è legata alla materialità logica.

Il cinema di Sciamma lavora sul creare microcosmi sospesi nel tempo (lo spogliatoio di Naissance des pieuvres, l’isola senza uomini del Ritratto della giovane in fiamme) in cui trovare soluzioni, nuovi modi di raccontare e guardare l’altro, alla ricerca di una parità di sguardo. Questa parità, che Heloise poteva ottenere solo ricongiungendo il suo sguardo con quello della pittrice Marianne, e che Nelly può conquistare solo se la madre torna bambina, è alla base di un cinema che asciuga la trama in un minutaggio cronometrato (72 minuti), rendendo così chiaro che un film non attinge a una questione produttiva, quanto induttiva, dalla sua esperienza di vita allo sguardo del pubblico.

Il lutto è una fase della crescita; Sciamma in questo senso nega l’idea che i bambini debbano essere protetti dal dolore, perché “anche loro vivono nel nostro mondo” e non sono avulsi dalla sofferenza. Un concetto difficile per adulti stanchi che intimano protezione in un mondo che non ne può avere. Per questo Nelly ha bisogno di una coetanea (della sua petite maman) per connettersi con lo sguardo dell’altro, e superare il dolore.

Un’opera che insomma quasi abusa dell’immagine-affezione, perché ciò che importa non è il conflitto con il mondo esterno (dove c’è conflitto, c’è sempre una gerarchia), ma quello interiore stanato con sguardi e risposte fuori campo. Il film allora ci depista, intreccia volti, esperienze, mischia e confonde case, inquadrature che sono sempre la stessa, ma raccontano già un’altra storia. Che confusione in questo non riconoscersi Nelly – Marion, per poi fermarsi e sapersi da sempre complici. “Io ti penso già adesso” dice Marion bambina in anticipo di vent’anni (o in ritardo di dieci) in un emozionante riavvicinamento, dimostrando che è solo rompendo le barriere generazionali, e quindi eliminando le dinamiche di potere nei rapporti, che i due sguardi possono coincidere e incontrarsi per rivelare qualcosa a sé stessi. Il cerchio del ciclo dell’eroina si chiude con un ritorno consapevole al mondo ordinario dove basta uno sguardo, certo, ma soprattutto un nome pronunciato (come riconoscimento assoluto dell’identità) per sapere chi siamo. L’immagine non è più mancante, ma piena di un significato ritrovato. Perché infondo “Un segreto non è necessariamente qualcosa che si vuole nascondere, è solo che non si ha nessuno a cui dirlo”.