È sempre cosa rara poter scrivere di cortometraggi che passano in sala: questa forma audiovisiva poco di grido, piccola, spesso legata a necessità produttive ma a volte anche a decisioni teoriche, non ha mai trovato cittadinanza nel vecchio rigido mondo della distribuzione italiana ma nemmeno in quello tanto eterogeneo e tanto flessibile delle piattaforme digitali, tutte schiacciate tra quei prodotti che una volta si sarebbero chiamati straight-to-video, i film d’autore che oggi si sono trasformati in griffe e le puntate della serialità di ogni tipo. Alla fine, il cortometraggio è ancora un oggetto culturale esiliato dalle abitudini, una sorta di unicum per cinefili che sopravvive e magari ha larga diffusione nei festival – in cui può vivere anche a lungo e con fortuna, crescendo di passaggio in passaggio – ma non evade da quei circuiti, mancando il riscontro di un altro tipo di pubblico, anche cinefilo. La mancata visione di una fascia di audiovisivo che corrisponde quasi sempre a quello della giovane generazione di registi e registe che iniziano a sgomitare nel campo del cinema d’arte corrisponde a una rimozione che incide sulla qualità e sulla coerenza dell’ecosistema fruitivo e impedisce di accedere alla conoscenza di nuove voci; per questo Indocili è, fuori da ogni strategia apologetica, uno dei pochi momenti in Italia dedicati all’ecologia audiovisiva, alla resistenza culturale molto pratica: “semplicemente” mette in visione ciò che fuori dai festival non viene visto, e quindi soprattutto mediometraggi e cortometraggi. Senza occasioni come questa rassegna si conoscerebbe meno un cinema che attraverso l’insistente e convinta sperimentazione al limite tra il documentario e la finzione, la figurazione e l’astrazione, ridefinisce dai margini le coordinate dei linguaggi che stanno al centro del discorso, oltre che le abitudini posturali sempre più nette e restrittive.

È il caso per esempio di Sonnenstube, corto di Davide Palella visto nei festival europei del documentario di ricerca (Locarno, Festival dei Popoli, Zinebi, Laceno d’Oro), premiato (con una Special Mention al Premio Ermanno Olmi) e apprezzato per la purezza delle sue immagini, figlie di un cinema ancora su piccola scala ma già ambiziosamente teorico. La “Sonnenstube” è “la stanza del sole” (nello specifico la Specola Solare di Locarno) dove l’astrologo Sergio Cortesi, per 64 anni ha preso nota delle macchie luminose prodotte dal Sole, producendo oltre 15.000 disegni: c’è qualcosa di più cinematografico della lenta e imperturbabile registrazione della luce condotta dalla mano di quest’uomo? Non è forse l’occhio dell’osservatorio simile in tutto e per tutto all’occhio di una macchina da presa pronta per incamerare la luce e metterla per iscritto? E non sono forse i disegni di Cortesi del tutto simili ai segni prodotti sempre dalle immagini sulle superfici schermiche del cinema? Il corto di Palella prende atto dell’umile sforzo cinematografico di questo confessore della luce con una forma che attiene al documentario più avanzato – la messa in scena è sempre quella di una distanza elegantemente simulata, l’uso del materiale d’archivio è sapiente e sempre evocativo di sospensioni temporali – ma quasi pare un film di fantascienza d’autore (tra i silenzi di Solaris e L’Eternauta) che cerca solo le immagini e quindi non ragiona per doppifondi o teste che parlano, ma solo superfici lavorate fino a punti di espressione, di senso, di azione – come in Sirio, esordio in cui il regista già cercava combinazioni drammaturgiche attraverso l’uso della luce nel buio delle grotte andaluse.

Se Sonnenstube si fermasse all’attestazione di un gesto, di per sé poetico nella sua segretezza – Locarno è famosa per un cinema che si svolge all’aperto ma in altri luoghi più noti ed esposti – e metaforico rispetto alla teoria cinema, sarebbe da lodare l’intuizione di rappresentare la natura performativa della scrittura astrologica senza scadere nel simbolismo “meta” urlato a forza (come spesso invece capita alle costruzioni di senso più fragili) e soprattutto senza concedersi alle lusinghe retoriche della psicologia, sempre pronta a dare ragioni e istruire in motivazioni. Il corto, che pure non dismette mai gli strumenti documentari, comunque non si ferma sulla mera descrizione, sposta il punto un poco più in là, dalle parti del confronto con un ignoto che alza la posta in gioco e investe il gesto di Cortesi di senso più ampio; intervallando poco prima del finale la ripresa in “primo piano” del referente fisico registrato negli anni dall’astrologo – le  spaventose lingue di fuoco esalate dal Sole – alle scene da camera nell’osservatorio, Palella infatti riconosce nel gesto dell’uomo non solo il “fare segno” proprio di ogni artista interessato alla creazione artistica come testimonianza ma anche una missione assolutamente sempre perdente, che mai potrà eguagliare la potenza di ciò che cerca di rappresentare e invece starà sempre altrove, in un fuori campo irriducibile. Quella in scena si rivela essere quindi la vecchia e sempre poco rappresentata sfida tra l’invisibile e il visibile, nella forma del lento e instancabile, epico e commovente lavorio dalla parte della visibilità dei testimoni di questo invisibile.