È estate e in un villaggio nel sud della Spagna, mentre una tempesta minaccia di far straripare il fiume, la giovane Ana scopre l’amore e il desiderio. In un luogo in cui le credenze popolari dominano, l’acqua diventa simbolo di sventura e di possibilità, di femminilità maledetta e conquistata.

Nel suo esordio al lungometraggio, El Agua (2022), la regista Elena López Riera, già vincitrice del Pardino d’Oro al festival di Locarno per il corto Los que desean (2018), torna a raccontare la sua terra d’origine, affiancando all’osservazione e al realismo documentario suggestioni magiche e mitologiche. In un’epoca di decostruzione del femminile, abbiamo conversato con lei a proposito di miti, pregiudizi e binarismo di genere. Per immaginare, con il suo cinema, un superamento del paradigma patriarcale.

El agua, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes (2022), è il tuo lungometraggio d’esordio nonché un film sperimentale, che mescola la finzione a elementi di documentario. Ma anziché mettere la finzione nel documentario, come spesso accade, fai il contrario. E parti proprio da un mito, che è un racconto radicato nella vita vera e nelle testimonianze reali: una sorta di mescolanza tra realtà e finzione. 

La sfida è stata proprio attuare questo procedimento inverso: sono partita dall’elemento immateriale della mitologia per poi ritrovare la concretezza e il legame con il territorio. L’idea è stata quella di girare un film di fiction, ma come fosse, appunto, un documentario. A me piace giocare con i contrasti, creare tensione tra i generi — che siano cinematografici, letterari, sessuali — e mettere insieme cose che normalmente non ci starebbero. Perché i generi sono una costruzione artificiale degli umani, non qualcosa di naturale. Nel mio lavoro amo proprio sottolineare questa tensione, per cercare di mostrare e capire meglio l’artificiosità e i meccanismi che ci stanno dietro.

Interessante quello che dici a proposito della natura, perché il mito di cui parli ha molto a che fare proprio con essa (per esempio, l’elemento dell’acqua è fortemente presente). Qual è, secondo te, il rapporto tra natura, mitologia e femminile?

Tutte le mitologie sono una costruzione mentale degli esseri umani per giustificare le strutture sociali e le ideologie. Una mitologia è sempre un’ideologia. È per questo che mi interessano tanto i miti popolari. E quando si adotta una prospettiva femminista diventa evidente come le mitologie servano a mantenere la differenziazione sociale, anche attraverso gli stereotipi. I miti descrivono la donna come eterea, incostante e le attribuiscono un rapporto speciale con la natura — dovuto alla maternità, al ciclo mestruale. Ma è tutto una costruzione. Per me, questa lunga tradizione che lega il femminile alla natura ha una spiegazione politica: serve a giustificare il dominio. E attribuisce alle donne la responsabilità di rielaborare questo rapporto con il magico.

Il mettere in scena il mito diventa quindi un’azione politica, ma il tuo punto di partenza è molto personale. È proprio vero che “il personale è politico”.

È questo che mi interessa della finzione. Immaginare, ma a partire dalla realtà, non in maniera astratta. Voglio alterare la realtà, come un gioco. Ed è impossibile, per me, non proiettare la mia esperienza personale in Ana, la mia protagonista, ma anche nelle figure della madre e della nonna, in ogni personaggio. La finzione, per come la intendo, è un lavoro che si fa dopo un’osservazione documentaria della realtà, e se ne nutre. Nel caso del mio film, per esempio, i personaggi sono prima di tutto persone: con loro abbiamo fatto un grosso lavoro prima di girare, integrando le loro vite e la loro gestualità nella finzione.

In El Agua, in effetti, parti da persone reali, attori non professionisti. E in più metti in scena il tuo paese d’origine. Ci puoi parlare del tuo rapporto con questo luogo?

È dove ho girato il mio cortometraggio Los que Desean, dove ho cominciato il mio lavoro da regista. È anche il luogo che mi ha permesso di vincere la mia paura di fare i film. Non mi sentivo legittimata a girare e allora mi sono detta: lavoro con i miei amici, nel mio paese, in cui mi sento più protetta. Questo mi ha permesso di avere uno spazio sicuro per essere come sono, parlare come parlo, avere questo accento che per me è importantissimo. È casa mia e ci torno spesso, ma non è il luogo in cui voglio vivere. Lo osservo con sguardo critico e ho anche una certa rabbia per l’essere cresciuta in un posto in cui le donne non avevano spazio per essere indipendenti, dovevano avere paura di tutto. Il rapporto che ho con il mio paese d’origine è violento, doloroso.

Come sei stata accolta quando hai deciso di girare il film?

Quando sono arrivata per girare e ho capito che tutti mi guardavano come se fossi una straniera, sono stata malissimo. Ma ho dovuto accettare di essere vista così e di avere, con il mio paese, un rapporto asimmetrico. Quello che mi interessa, alla fine, è parlare di me: per fare un film bisogna accettare questa parte di ego, altrimenti non lo si fa. Mi sono chiesta come fare a essere, sì, egocentrica, ma anche onesta. Ho cercato di mettere tutti quanti a loro agio, assecondando chi non voleva essere filmato. Per questo ho deciso di non nascondere mai la telecamera, soprattutto nei segmenti di documentario.

Come hanno reagito le persone coinvolte nel film – gli attori, le donne intervistate – nel vedersi proiettate sul grande schermo? Il cinema può creare degli spazi per le donne dove prima non c’erano?

Non so se, per chi ha partecipato al film, sia cambiato qualcosa, non sono così ottimista. Penso che sia stata una bella esperienza: abbiamo anche fatto una proiezione in cui c’eravamo tutti, dato che il film era stato nominato per il Premio Goya (2022). Credo sia stato bello prendere parte a una sorta di album di famiglia. Ma non penso che la vita di nessuno sia cambiata o che il cinema possa creare degli spazi reali per le donne. È la condivisione di un’esperienza. Per me è politicamente importante condividere, discutere, ragionare con le giovani generazioni.

L’idea di condivisione rimanda alla cultura orale, è una sorta di patrimonio tradizionale e soprattutto familiare.

La cultura spagnola, simile per certi versi a quella italiana, è fortemente legata al concetto di famiglia, che a sua volta è influenzato dal cattolicesimo. Quello che mi interessa della concezione della famiglia nella cultura cattolica è l’importanza che viene data alla condivisione del tempo tra tutti i suoi membri, anche di generazioni diverse. Io per esempio sono cresciuta con mia nonna e la mia bisnonna, e penso che il dialogo intergenerazionale che si crea all’interno di queste famiglie sia un’enorme ricchezza, proprio perché spesso le opinioni non coincidono. Non dico tutto questo per difendere l’ideale cattolico della famiglia tradizionale, ma per riappropriarmi di questa sua parte positiva di dimensione collettiva e collaborativa, che diventa anche politica. Questo tipo di famiglia è una sorta di tribù e credo che, grazie anche all’apporto delle nuove generazioni, potrà evolversi, liberandosi dai moralismi tipici del cattolicesimo.

In effetti, il discorso generazionale che c’è nel tuo film è centrale: le donne più anziane possono insegnare alle ragazze un modo di contrastare il maschile che ha il dominio, però allo stesso tempo le giovani possono trasmettere la speranza di un mondo diverso.

Per me questo argomento è fondamentale. Ho l’impressione che negli ultimi anni le femministe più giovani covino una sorta di rabbia verso le generazioni precedenti. Però penso che, anche se si può non essere d’accordo con alcune istanze del primo femminismo, occorra essere coscienti che è stata una lotta ardua e lunghissima, riconoscendo l’immenso valore delle loro conquiste di cui godiamo ancora oggi. Se non ammettiamo questo, noi giovani donne potremmo rischiare di perdere di nuovo certi diritti acquisiti proprio grazie a quelle prime lotte. È la mancanza di dialogo che rende tutto ancora più complesso. Dunque io mi auspico un femminismo nel quale si possa anche non essere d’accordo tra le diverse parti, riuscendo a discutere e considerando l’ipotesi di poter cambiare idea. Io stessa ho cambiato opinione un sacco di volte: è fondamentale condividere, parlare. Il mio è un femminismo marxista, dove sono preponderanti anche le questioni economiche e di classe.

Oltre che regista, sei stata anche programmer di numerosi festival (Entrevues Belfort, Seville European Film Festival, Visions du réel). A proposito di femminismo, che cosa ne pensi delle cosiddette quote rosa?

Penso che siano una soluzione orribile, ma la sola che abbiamo. Se il mondo andasse bene così, non avremmo più bisogno del femminismo. Non è che sei femminista perché ti fa piacere, ma perché è necessario: è un lavoro da portare avanti tutti i giorni. E allora penso che se chi seleziona i film dà più spazio alle donne, è perché ce n’è bisogno, anche se iniziative come queste sono un po’ pinkwashing. Bisogna riconoscere che il problema è più profondo e che spesso ci si ferma alle quote rosa senza tenere conto di come le donne sono rappresentate.

Secondo me bisogna prestare attenzione sì a programmare film fatti da donne, ma soprattutto concentrarsi sulla rappresentazione, sull’identità di genere, sulla sessualità, su tutto ciò che non è il maschio etero, bianco e dominatore. L’obiettivo della lotta non è certo quello di portare più donne a Cannes. Naturalmente non sono contraria al fatto che più autrici riescano a partecipare ai festival, ma non ci si può fermare lì, perché il problema della non-rappresentazione delle donne parte dal basso.

Soffermiamoci sul concetto di rappresentazione. Visto che nel cinema si parla molto di male gaze – questo sguardo maschile dominatore teorizzato nel 1975 dalla critica cinematografica femminista Laura Mulvey – secondo te esiste oggi un female gaze che vi si oppone?

Quello che mi interessa del cosiddetto female gaze è come è stato trattato dalla sociologa femminista Laura Mulvey, ovvero come concetto mutuato da una visione psicoanalitica della storia della rappresentazione delle donne. Non mi piace la banalizzazione che si fa oggi di questo “sguardo femminile”, che si concentra ancora su una visione binaria e naturalista del mondo a cui io, personalmente, non credo. Mi interessa però il concetto di female gaze come sguardo critico sulla rappresentazione dei corpi femminili nella storia del cinema: il femminismo stesso, per me, è uno sguardo critico che esiste, ma che va continuamente rinforzato. Non credo che le donne siano naturalmente dotate di female gaze – che a questo punto definirei proprio “sguardo femminista”. Un film come Bridget Jones, per esempio, non ha nulla di questa tipologia di sguardo. C’è ancora tanto lavoro da fare in questo senso.

Nel cinema, come pensi si possa cercare una dimensione più inclusiva e aperta? Lontana dai binarismi e dalla visione patriarcale?

Penso sia importante decostruire l’idea del regista assoluto, che sa tutto. E qui torno alla dimensione collettiva e collaborativa. In questo lavoro, è importante condividere i problemi e le fragilità, sapere che, sì, è difficile, ma non impossibile. Per me la soluzione è sempre la dimensione collettiva, l’amicizia e la collaborazione: è stato così che ho trovato la pace, il mio spazio.

Intervista a cura di Zoe Ambra Innocenti e Martina Peruzza