“Ogni volta che vado in un monastero di Kyōto o Nara e mi vengono mostrate toilette all’antica, in penombra e impeccabilmente pulite, resto sempre colpito da quanto amo l’architettura giapponese. Le sale da tè hanno il loro fascino ma le toilette giapponesi sono davvero progettate per calmare lo spirito. […] La toilette è davvero un luogo perfetto per ascoltare il frinire degli insetti o il canto degli uccelli, per vedere la luna o per godersi uno di quei momenti commoventi che scandiscono il cambio delle stagioni. Questo, forse, è il luogo in cui i poeti di haiku dai tempi antichi si sono ispirati per molti loro soggetti.”

Difficile credere che prima della scrittura di Perfect Days, svolta assieme al co-sceneggiatore Takuma Takasaki, Wim Wenders non abbia letto le parole che Jun’ichirō Tanizaki dedicò nel 1933 all’estetica del bagno giapponese nel suo Libro d’ombra. Non solo per le riflessioni che Tanizaki elabora sull’architettura delle toilette nipponiche, ma anche e soprattutto per il discorso che intesse, attraversando il ricco spettro di discipline e tradizioni giapponesi, su luce e ombra. Quest’ultima infatti capitola spesso nella quotidianità di Hirayama, addetto alla pulizia dei bagni del quartiere di Shibuya a Tokyo, interpretato da un mai così intenso Kōji Yakusho, la cui ultima partecipazione a una produzione occidentale risale al Babel (2006) di Alejandro González Iñárritu. L’ombra, le ombre, oltre a danzare sulle pareti dei gabinetti lucidati da Hirayama, ne abitano il sonno, una camera oscura nella quale la notte sviluppa le immagini impressionate sugli occhi dell’uomo durante il giorno. Ed è nelle battute finali del film, quando Hirayama e una delle tante figure che compaiono nella sua vita si domandano se due ombre sovrapposte ne facciano una ancora più scura, che Wenders esplicita l’importanza che questo elemento riveste in Perfect Days.

Chi ha visto Tokyo-Ga (1985) sa bene che il regista tedesco non è nuovo al dialogo col Giappone. Nel documentario, interamente dedicato alla vita e all’opera di Yasujirō Ozu, Wenders incontra i collaboratori che ne hanno forgiato le immagini, dal direttore della fotografia Yūharu Atsuta all’attore Chishū Ryū. Risulta evidente quale, oltre a Tanizaki, sia stata l’influenza fondante che permea Perfect Days. Il cinema di Ozu, contenendo molti se non tutti e sette i tratti essenziali dell’estetica zen, faceva dello Yûgen, come ben spiegato da Paul Schrader nella famosa analisi della scena del vaso di Tarda Primavera (1949), uno strumento linguistico indispensabile per veicolare gli stati d’animo vissuti dai personaggi. Tradotto letteralmente, Yûgen significa “leggermente scuro” e sta a indicare il fascino di tutte le cose in penombra. Un’impenetrabile profondità e finezza è quella trattenuta segretezza nella quale è nascosta un’infinita e non manifestabile pienezza di senso. Questa interiore ricchezza non può assolutamente esaurirsi nell’espressione. Qui domina un’oscurità di impenetrabile calma e abbandono. Un’oscurità, un’ombra. Questo è lo Yûgen, un concetto che a qualcuno potrà apparire banale – come banale potrà sembrare il film, la scelta delle musiche, la narrazione routinaria e così via – proprio perché, con ogni probabilità, banale lo è. Ed è banale la bellezza insita nell’esistenza di Hirayama.

Di certo, però, non è banale la scelta di Wenders di accantonare gli stilemi classici della narrativa occidentale per sposare una struttura a quattro atti tipicamente giapponese chiamata Kishōtenketsu. In occidente ci si aspetta una storia incentrata su un protagonista che proattivamente insegue un obiettivo per il quale possiamo fare il tifo. Questo smuove in noi alcuni interrogativi impliciti quali: riuscirà il protagonista a raggiungere il suo scopo? Se sì, come? E cosa succederà se dovesse fallire? Prendendo in prestito un termine dalla tradizione filosofica orientale, questo è quello che potremmo chiamare una struttura “dharmica”. Il personaggio insegue uno specifico dharma, una via verso un traguardo tangibile.

D’altro canto, nel kishōtenketsu, è possibile trovare un personaggio che vive la propria vita fintanto che è costretto a interagire con una o più forze esterne, molto spesso imprevedibili. È il caso della nipote di Hirayama che, nel terzo atto, irrompe nelle giornate dell’uomo per condurlo a una rielaborazione emotiva del conflitto con la propria sorella. Questa è quella che viene definita una struttura “karmica”, dominata dalle leggi di causa ed effetto. Le culture dell’Asia orientale sono sempre state intrise da quest’idea del non-fare, del seguire il flusso della natura e dell’estinzione dei propri bisogni, e dunque ha perfettamente senso che le loro storie seguano questo tipo di struttura. La potenza rivoluzionaria di questo approccio narrativo risiede nell’abbandono del conflitto come motore del racconto, in favore di una postura estetica e filosofica che piuttosto lo accolga e lo disinneschi, superando così ostilità e distanze.

“Ma perché solo gli orientali hanno una così forte tendenza a cercare la bellezza nel buio? Forse in Occidente c’è stato un tempo in cui non c’erano elettricità, gas o petrolio, ma non ho mai visto che avessero una propensione a deliziarsi nell’ombra. […] Secondo me è questo: noi orientali tendiamo a cercare le nostre soddisfazioni in qualunque ambiente ci capiti di trovarci, ad accontentarci delle cose come sono; e così l’oscurità non ci causa scontento, ci rassegniamo a essa come inevitabile. Se la luce è scarsa, bene, allora la luce è scarsa! Ci immergiamo nell’oscurità e lì scopriamo la sua particolare bellezza”

(Jun’ichirō Tanizaki, Libro d’ombra)