Aveva ragione il Cocteau del Sangue di un poeta a rimproverare gli specchi, sostenendo che farebbero bene a riflettere prima di restituirci le nostre immagini. Perché il riflesso senza riflessione si scopre presto inaffidabile, se non addirittura pericoloso. Come conferma con deliziosa perfidia l’ultimo film di Todd Haynes, allievo dichiarato di certi maestri che del fascino e del rischio degli specchi se ne intendevano: Welles naturalmente, ma soprattutto Sirk, Fassbinder, Nicolas Roeg e non da ultimo Jean Genet, che ispirò l’esordio di Poison. Anche se l’immaginario vitreo di May December – si sa oramai – ha una radice perlopiù bergmaniana: l’iconografia e l’onomastica ricalcano quelle di Persona, in fondo la predilezione della macchina da presa è tutta per ‘il volto’ e ‘l’immagine allo specchio’ (titoli italiani di film lontani tra loro, per cronologia e ambientazione, ma saldati nell’originale svedese dalla stessa parola: rispettivamente Ansiktet e Ansikte mot ansikte).
Proprio ‘faccia a faccia’, con profili quasi cloisonné, si consuma il cortese stritolamento tra le due protagoniste, Gracie ed Elizabeth, che poi è anche un titanico confronto attoriale, prima ancora che tra due interpreti comunque sensazionali, tra due età cinematografiche della donna o, meglio, tra due versioni antinomiche dell’eterno femminino hollywoodiano: la casalinga maniacale e insondabile della sessantenne Juliane Moore, e la cinica star seduttiva secondo Natalie Portman, poco più che quarantenne. Quest’ultima è Elizabeth Berry, attrice di teatro e televisione che s’insinua nell’apparente armonia della comunità di Savannah, in Georgia, per osservare a distanza ravvicinata il personaggio che dovrà interpretare in una produzione indipendente: ventitré anni prima Gracie Atherton-Yoo, all’epoca impiegata in un negozio di animali, è finita in prigione per la sua relazione col tredicenne Joe, che dopo la liberazione è diventato il suo secondo marito e dal quale ha avuto una figlia, nata in carcere, e due gemelli ora prossimi al diploma (così si spiega il titolo, espressione americana per descrivere il rapporto tra una persona giovane – maggio, la primavera – e una decisamente più anziana – dicembre, l’inverno). Nel corso dei suoi incontri con amici e parenti di Gracie, organizzati di fatto come interviste stridenti, Elizabeth ripete più volte di voler far emergere “qualcosa di vero” e finora mai compreso sulla scabrosa vicenda. Tuttavia gli indizi e le confessioni contraddittorie che, moltiplicati nel corso del film come i subdoli giochi di specchi della regia e il travestitismo della luce attraverso gli acquari, parrebbero aprire crepe nella complicità coniugale e nella candida sicurezza di Gracie, rivelano piuttosto che “qualcosa di falso” è sempre al fondo di quella seduzione che per tutti, tanto chi la esercita quanto chi la subisce, è una tormentosa necessità.
Dentro la sfida fra i due metodi di manipolazione incarnati da Gracie ed Elizabeth, e quindi fra due idee complementari di recitazione – in mezzo alla quale annaspa, perennemente sotto controllo, l’irrisolto Joe – il cine-feticista Haynes arrangia tocchi dal triangolo intergenerazionale di Sunday Bloody Sunday di Schlesinger, rintocchi di The Go-Between di Losey (la compulsiva colonna sonora di Michel Legrand rifatta per l’occasione da Marcelo Zervos) e, al di là dei trasparenti riferimenti alla rivalità teatralizzata di All About Eve, ritocchi della rivalsa matrimoniale alla base delle Dames du Bois de Boulogne che Bresson trasse da Diderot (con dialoghi – rieccolo – di Cocteau, precursore di quel camp ermafroditico che il regista californiano ha corteggiato sin da Velvet Goldmine). Se risulta prevedibile la metafora entomologica dell’ingabbiamento e delle illusioni adolescenziali di Joe, allevato in un ambiente oppressivamente protetto come una delle sue farfalle monarca, in compenso alla messa in scena di Haynes, con le simulazioni di orgasmi e i pianti sproporzionati, non sfugge nessuna sfumatura dell’ambiguità e delle incertezze delle sue figure, come raramente riesce ad altri autori suoi coetanei (Bertrand Bonello? Lou Ye?).
Mentre torna, come dichiarano le primissime inquadrature di edifici anonimi e interni domestici, a dissezionare il tessuto della provincia statunitense e lo spazio borghese già misurati per gradi d’ipocrisia in Far from Heaven, May December affronta obliquamente l’insopprimibile dipendenza umana dalla finzione, aggiornando in ottica contemporanea il ‘paradosso dell’attore’ formulato (appunto) da Diderot alla fine del XVIII secolo: “Se egli è se stesso quando recita, come farà a smettere di esserlo? Se vuol cessare di essere se stesso, come farà a cogliere il punto giusto in cui deve situarsi e fermarsi?” – e infatti in pochi sono in grado, come dice Gracie di sé nel finale, di superare “il limite” senza smarrire la propria precaria identità. Perciò qui per ottica s’intende anzitutto quella, quasi isterica, sia dei costrittivi zoom sulle fragilità familiari degli Atherton-Yoo, sia dell’impressionante carrellata all’indietro che chiude sul nero l’ultimo confronto tra Elizabeth e Gracie. Convinta di aver carpito per via d’imitazione, persino erotica, il segreto della personalità del suo modello, l’attrice si presenta con trucco, scarpe, abito e occhiali da sole speculari a quelli dell’altra, e sembra pronta a sostituirla non solo nell’adattamento cinematografico imminente. Ma le poche, accuratamente vendicative parole di Gracie, che per sopravvivere al perbenismo e alla propria auto-narrazione vittimistica ha cominciato a recitare molto prima e con molto più accanimento di lei, lasciano Elizabeth boccheggiante, costretta ad ammettere l’inafferrabilità di Gracie e, nell’inquadratura successiva, a ripetere ossessivamente e inutilmente sul set la scena della seduzione di Joe. Lo ‘specchio della vita’ è irrimediabilmente incrinato, forse già a pezzi.