Sono il re. Sono il figlio dell’acqua. Sono l’uccello notturno. Sono il serpente che nasconde la testa nel fango. Sono la pelle, senza padrone né forma.

Orélie-Antoine de Tounens, effettivamente passato alla storia come Antonio I di Araucanía e Patagonia, si presenta sin dall’inizio come colui che è predestinato a diventare re. Nella seconda metà dell’Ottocento abbandona le campagne francesi e la sua professione di avvocato per avventurarsi nelle terre, ancora inesplorate, del profondo sud cileno. Se la missione è quella di crearvi un regno indipendente, le versioni riportate dalla posterità sono molteplici e segnate dall’incertezza: Orélie-Antoine era una spia a servizio della Francia? In seguito alla condanna all’esilio da parte del governo cileno, ha poi fatto più ritorno verso i suoi sogni d’oltreoceano?

Rey, opera seconda del cileno-americano Niles Atallah sembra emergere direttamente dal sottosuolo, per riportare alla luce un racconto wunderkammeriano altrimenti relegato ai margini della Storia. La prossimità all’elemento naturale riecheggia tanto nello sviluppo narrativo quanto in quello produttivo: se Orélie-Antoine si dice profondamente radicato alla terra e da questa legittimato a diventare re (“Sono già morto, in questo luogo. Un nuovo corpo mi attende sotto questa terra, lungo le sponde del Bio Bio. Cari sudditi, sono arrivato”), lo stesso trattamento del materiale filmico è messo al servizio della materia esplorata: un’opera che ha richiesto sette anni di lavorazione, le cui originarie pellicole 16mm e Super 8 – e alcuni 35mm su cui sono state riversate parte delle sequenze girate in digitale – sono state sotterrate nel giardino dello stesso regista al fine di restituire la grana e le discontinuità della memoria, di ricreare un archivio storico altrimenti inaccessibile. Un’inusuale ricerca di quegli effetti visivi capaci di raccontare l’indistinzione fra l’arbitrarietà del ricordo e il vero storico, così come impressionare e registrare il crescente clima apocalittico che caratterizza l’epilogo di questa inconsulta epopea in terra cilena, il disfacimento della razionalità, la corruzione dell’armonia umana e sociopolitica.

Calandosi nel mondo interiore di un visionario, Atallah scava nei meandri dell’ossessione, in un viaggio teso a colmare – senza per questo inseguire una narrazione analitica – lacune lasciate dalla storiografia ufficiale, tracciando così le gesta utopiche di un avventuriero che finirono per tradursi in un incubo, accompagnandoci nel suo inabissarsi nel gorgo della follia, in quel sottosuolo dove regna l’assurdo. Lontano dalla rassicurante biografia romanzata di un uomo relegato nelle regioni più periferiche della storia, Rey tenta di decifrare un superuomo più prossimo alla feroce irrazionalità di Aguirre che a quella più conciliante di Don Chisciotte; così come le stesse pratiche cinematografiche stra-ordinarie del regista non sembrano poi tanto distanti, per caparbietà, consapevolezza autoriale e capacità di cogliere la fusione del nocciolo dell’animo umano, da quelle che caratterizzano la filmografia dello stesso Herzog.

Se già con l’installazione Lucia, Luis and the Wolf aveva lavorato con il cinema d’animazione, Atallah sceglie di utilizzare delle maschere di cartapesta in molte parti del film: anche qui, una modalità per rappresentare l’impossibilità di un’inequivocità del reale, pur muovendosi su basi storiche. Ma l’ambiguità e l’impossibilità di giungere ad una verità oggettiva aprono in realtà uno spiraglio anche su qualcosa di più attuale, politicamente ed intimamente doloroso: gli scheletri della dittatura cilena, le sue ombre, la ricostruzione artificiosa di processi che mai furono accordati alle tante vittime del regime. Lo stesso Antoine, con l’avvicinarsi della sua rovina, si chiederà dove sia il suo corpo, dove sia il suo regno: domande che, ancora una volta, sembrano di fatto richiamare le sorti incerte dei tanti desaparecidos cileni, con cui il suo cinema precedente si è ampiamente confrontato.

Con le immagini finali, Atallah consegna allo spettatore un caleidoscopio per muoversi tra fenomenico e chimerico, con un Giano bifronte di cartapesta testimone di un orrore che sembra aver avuto il sopravvento sull’umano. Una chiusura necessariamente lisergica per un cinema che, pur non restando sordo al richiamo della storia, celebra la tortuosità del reale e la  fantasmagoria, allucinante e allucinata, del racconto.