F.J. OSSANG PRESENTA 9 DOIGTS

Tra citazioni letterarie e omaggi all'estetica del cinema espressionista, cinici cospiratori e femmes fatales, una narrazione labirintica che si trasforma in un tragitto mentale. Un'opera punk e visionaria, tra scenari apocalittici e ombre noir.

Presenti in sala il regista F.J. Ossang e l'attrice Elvire | con la partecipazione di Daniela Persico, Alessandro Stellino, Tommaso Isabella (filmidee.it)

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● 9 DITA ● 9 DOIGTS
un film di F.J. Ossag
con Paul Hamy, Damien Bonnard, Pascal Greggory, Gaspard Ulliel, Elvire, Lisa Hartmann, Diogo Dória, Lionel Tua, Alexis Manenti
sceneggiatura: F.J. Ossang ● fotografia: Simon Roca ● montaggio: Walter Mauriot ● musiche: Jack Belsen, Messagero Killer Boy
produzione: 10:15 productions, OSS 100 films & documents, O som e a fúria ● distribuzione: Reading Bloom, Rodaggio Film
Francia, 2017 ● 99 minuti; v.o. francese con sottotitoli in italiano

► 2017, Locarno Film Festival: Pardo d'argento per la miglior regia; presentato al Torino Film Festival/TFFDOC

► SINOSSI. È notte. In una livida stazione dove vengono fermati tutti i treni Magloire fuma una sigaretta. Fugge un controllo di polizia, senza bagagli, senza futuro, fino alla spiaggia di un mare infernale. Qui iniziano per lui i problemi, su un sinistro bastimento in rotta verso un luogo che non esiste.

❝In tutti i miei film ci sono sempre vascelli fantasma, navi alla deriva, ma sempre fuoricampo; allora, in questo film, che potrebbe essere l'ultimo, ho deciso di filmare questa nave. Sapevo che la faccenda era complicata [...] ma ero veramente attratto dall'idea di un ritorno alle origini, all'infanzia, perché sono sempre stato affascinato da grandi racconti come Il Vascello fantasma del capitano Frederick Marryat, e ovviamente di Edgar Allan Poe, Lautréamont, Conrad, che sono veramente delle risorse inesauribili. Per gli occidentali, il racconto d'avventura è una sorta di rito iniziatico, quindi, sì, ho attinto da lì per fare un film d'avventura sul mare, ma che è anche un po' minimalista, perché in fin dei conti quella nave corrisponde all'inferno: i protagonisti sono chiusi in uno spazio molto ristretto, dove ci sono suoni e odori, mentre fuori c'è un'immensità in cui si può solo impazzire, perché c'è solo il vuoto.❞ (F.J.Ossang)

► ❝Dopo sette anni dal suo ultimo lavoro DHARMA GUNS il multidisciplinare (poeta, scrittore, musicista e regista) artista francese sbarca al Locarno Festival con la sua ultima fatica, un film oscuro e misterioso popolato da personaggi seducenti e ambigui. (...) un film che può essere paragonato a una sinfonia wagneriana dove pessimismo ed eroismo vanno a nozze. L’oscurità (il bianco e nero è di rigore) domina tutti i piani, come un manto dolente che impedisce alla luce di prendere il sopravvento. (...) La cinematografia di F.J.Ossang è segnata da una passione per i film di genere, i film noir (Melville in primis), ma anche dal cinema muto e dall’espressionismo tedesco (evidenti i richiami a Vampyr di Dreyer). La miscela di queste influenze non è però mai sterile o convenuta, al contrario il regista riesce ad appropriarsele magistralmente. Il risultato è appassionante, misterioso e radicale.❞ (Muriel Del Don, Cineuropa)

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biglietto intero € 7,00 | ridotto (under26-over65) € 5,00
tessera 6 ingressi € 24,00
tessera 10 ingressi € 50,00
tessera fab ♥ 12 mesi € 15,00 (dà diritto a riduzioni)

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prima e dopo il film Al Tempio D'oro, da PaellaMi Milano e Bluenami 10% di sconto presentando il biglietto del cinema

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con il contributo di
Europa Cinema


UN ATTENTATO CONTRO LA RIPRODUCIBILITÀ DELL’OPERA D’ARTE

Ai cittadini di Amburgo (e specialmente a Gisella Stelly, che si è battuta per il progetto come una scaltra leonessa), dobbiamo una partecipazione finanziaria decisiva. Ai cittadini di Amburgo abbiamo portato il più bel dono che potessimo fare: un negativo originale (terza versione) del nostro film tratto dal poema tragico La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin, che ha avuto la sua anteprima pubblica (prima versione) al Festival di Berlino e al cinema Metropolis di Amburgo.

Questo negativo, che è stato montato nel laboratorio romano Luciano Vittori (che custodisce i 65 000 metri del negativo Eastmancolor 35mm impressionati e sviluppati per il film), l’abbiamo portato da Roma ad Amburgo al laboratorio Geyer Werke, dove, sotto la supervisione del signor Noack, la signora Heinrich ne ha bilanciato il colore, e dove da questo momento è depositato.

Come la prima e la seconda, la terza versione del film consiste di 147 inquadrature che si succedono nello stesso ordine e sono ugualmente ripartite in 7 bobine.

Le inquadrature – blocchi inseparabili di immagine e suono non intercambiabili – sono le stesse nelle tre versioni, ma ogni versione è composta da riprese (takes) distinte, differenti, di queste inquadrature, più o meno soleggiate, più o meno ventose; e queste riprese – all’inizio e alla fine – sono state montate con più o meno margine, a seconda di quanto accadeva o non accadeva, a inizio e fine ripresa, agli attori o attorno agli attori – nell’immagine e attorno all’immagine, nel suono: tensione, distensione, sospiro, sguardo, movimento, movimento del vento, cambio di luce, farfalle, cinguettio di uccelli, gracchiare di corvi, folate di vento... vicini o lontani.

Le differenze di lunghezza tra le bobine di una versione e il suo corrispettivo nell’altra versione arrivano al fino a 13 metri. Eppure la lunghezza totale di ogni versione non presenta enormi differenze: 3 629 metri, 3 618, 3 601.

La più corta è – casualmente – la versione di Amburgo. Essa è anche (casualmente) la più contrastata, quella col maggior numero di cambiamenti di luce, ma la meno soleggiata, quella coi colori più forti – la più scura, anche nei sentimenti, la più dura forse. E consiste – con qualche eccezione di ultimissimi ciak, come ad esempio l’inquadratura 145 – di riprese (takes) che non superano quasi mai la tredicesima: la media della nostra messe siciliana. La prima e la seconda versione invece consistono di riprese che arrivano sempre al 36o ciak: quasi sempre le ultime o le penultime riprese (o le penultime o le ultime!) della nostra messe siciliana.

Abbiamo montato la versione di Amburgo alla Filmhaus della Friedensallee al tavolo Steenbeck di Gisela Stelly nel marzo 1987 durante un seminario con circa 17 studenti provenienti da Vienna, Münster, Bielefeld, Berlin, Munich e Amburgo. La prima e la seconda versione le abbiamo montate da soli una dopo l’altra alla fine dell’estate e nell’autunno 86 a Roma. Il negativo della prima versione (la berlinese) è stato bilanciato presso Luciano Vittori a Roma e lì è depositato. Il negativo della seconda versione – anziché lasciare al co-produttore, com’è abitudine, un contro-tipo della prima versione – l’abbiamo portato a Parigi e lì fatto tirare alla L.T.C. di Saint-Cloud, dove è depositato. Alcune copie di questa seconda versione sono già state o saranno sottotitolate in francese, inglese e italiano.

La prima versione (la berlinese) era conosciuta in patria e all’estero come la versione della lucertola, perché in questa versione – mentre Empedocle si congeda dai suoi tre schiavi – una lucertola entra in campo che attraversa verso sinistra salendo due gradini. Ora si può battezzare la terza versione (l’amburghese) la versione del gallo, perché qui – sulle parole di Empedocle “è tua la colpa, povero Tantalo / hai profanato il santuario, disgraziato e / con presuntuoso orgoglio hai spezzato / il bel legame!” si sente cantare un gallo in lontananza.

Siamo molto fieri, con queste tre versioni del nostro film, di avere commesso un attentato contro la riproducibilità dell’opera d’arte nell’epoca della tecnica, ma – altresì – un attentato contro l’unicità dell'opera d’arte.

Abbiamo missato le tre versioni esistenti col nostro più vecchio complice, l’unico ingegnere del suono che ancora sopravvive, Louis Hochet, presso Éclair a Épinay-sur-Seine, dove si è fatto per tre volte il trasferimento ottico e si sono sviluppati i negativi. Dobbiamo le quattro versioni al tempo instabile, straordinariamente mutevole durante le riprese fino al 18 luglio sull’isola – e... alla preparazione approfondita di un anno e mezzo dei nostri attori e alla pazienza.

Il testo dei titoli di testa e di coda è lo stesso per ogni versione, ma una volta allineato a sinistra (versione di Berlino), un’altra volta a destra (versione di Amburgo), o centrato – in tedesco nella quarta (eventuale) versione, in francese nella versione di Parigi.

Differenze nelle copie: da Geyer ad Amburgo si usa lo sviluppo liquido, da L.T.C. a Saint-Cloud e da Vittori a Roma si sviluppa a secco. Per quanto riguarda il tiraggio e la scelta dei colori, non abbiamo cercato di arrivare al minimo comune denominatore, ma di raggiungere un compromesso tra la luce siciliana e quelle che ogni volta erano le abitudini e il cosiddetto gusto a Roma, in Francia e in Germania.

20 agosto 1987

"Un attentat contre la reproductibilité de l'oeuvre d'art", pubblicato nella versione originale francese in « Filmcritica», n. 377, agosto 1987. Apparso in Jean-Marie Straub, Danièle Huillet, Écrits, Indipendencia Éditions, Paris 2012. Traduzione italiana di Tommaso Isabella.


HOLY MOTION
(CAPTURE)

Negli anni Novanta (e oltre), alcuni buontemponi prestati alla teoria, probabilmente sulla scia di un po' di Baudrillard mal digerito, si misero a profetizzare il declino del “referente indexicale”, la fine dell'aggancio fotografico con il reale che è prerogativa dell'immagine cinematografica, per mano delle sempre più pervasive tecnologie digitali. Grazie alle sempre più vertiginose possibilità pittoriche che il digitale ci mette in mano, ben presto, secondo costoro, non avremmo saputo più che farcene della riproduzione “lumieriana” della realtà: Brandon Lee, o chi per lui, avrebbe potuto risorgere in mille altri film post-mortem, rendendo inutile che ci si prendesse ancora la briga di piazzare degli attori davanti a una macchina da presa.

C'è voluta la motion capture per sconfessare una volta per tutte questa inconsistente angolatura teorica. La punta più avanzata, ad oggi, della tecnologia digitale al cinema (ne è la prova l'infatuazione che i sommi tecnologi holywoodiani Zemeckis, Cameron, Spielberg, Jackson hanno avuto per lei) non va affatto in direzione del priapismo pittorico, della possibilità di creare ex novo qualsiasi immagine si voglia. Ritorna, invece, verso la fotografia: si tratta infatti, pur sempre, della captazione (a suo modo) fotografica del movimento (in vista naturalmente del suo innesto su immagini digitali).

Ecco perché, nel suo magnifico Holy Motors, Carax fa entrare Denis Lavant in uno studio di motion capture e gli fa indossare i sensori. La “mocap” non può mancare in un film che celebra, con immensa malinconia e altrettanta libertà, la presenza residuale del cinema all'ombra della minaccia della sua morte. Il digitale, ciò che fa rimpicciolire gli obbiettivi, ciò che avrebbe dovuto sancire la morte del cinema e della sua base fotografica, ne garantisce invece un'inattesa resurrezione. Anzi: ne riscrive retroattivamente il passato. Perché la motion capture anziché portare il cinema in un futuro immaginato da teorici frettolosi, lo riporta indietro scavando un tunnel anacronistico che arriva fino alla "cronofotografia" di Etienne-Jules Marey, cruciale pioniere cinematografico di fine Ottocento per il quale l'apparecchio in questione era, innanzitutto, preziosissimo strumento di analisi del movimento.

“La bellezza è nell'occhio di chi guarda”, dice con sufficienza il personaggio di Michel Piccoli: tutto Holy Motors prova a smentire questa vulgata, a dimostrare che no, la bellezza è nelle cose, non nel piccolo potere del soggetto di crearsi una bellezza su misura per il proprio occhio (magari con i nuovi strumenti messi a disposizione dal digitale). Il problema è cosa intendere con questo “nelle cose”. Carax scarta la soluzione più facile e ingannevole: la riproduzione “lumieriana” della realtà. No, non è questione di riprodurre la realtà, non è questione di Lumière: è questione di movimento, è questione di Marey. E infatti sono di Marey, e non di Lumière, gli spezzoni che saltuariamente interrompono il film.

Carax insomma traccia un'asse Marey/motion capture sulla base della supremazia del movimento come quintessenza cinematografica, la quale se ne frega che ci sia o meno un occhio a guardare un corpo o un corpo a esibirsi per un occhio. È ciò che spiega Lavant a Piccoli: lui continua a cercare la bellezza del gesto anche se gli apparecchi di ripresa si sono rimpiccoliti fino a scomparire, anche se appunto non c'è più un occhio che la guarda. Basta il movimento, basta esserne posseduti, basta che il corpo si esaurisca in esso (nel gesto, appunto), incurante dell'occhio: ecco perché il regista sceglie un attore dalle movenze violentemente inconsulte (un corpo selvaggiamente subordinato al movimento) come Lavant, uno che non ci meraviglieremmo se venissimo a sapere che abita insieme a delle scimmie (come ci suggerisce il finale). L'occhio e il corpo spariscono entrambi nella medesima reciprocità che li stringe: resta il movimento, che non è poco, è anzi quasi tutto. Già la prima scena lo mette in chiaro: Carax in persona viene seguito dalla cinepresa mentre cammina circospetto dentro un'affollata sala cinematografica nel corso di una proiezione, senza che gli spettatori né lo schermo vengano inquadrati troppo frontalmente – insomma: la dialettica guardante/guardato non è affare del cinema, il quale è invece fatto per marcare da presso il movimento in tutto il suo inesauribile mistero.

Tornando infatti a questo asse Marey/motion capture, che cosa ci troviamo in mezzo in una ipotetica linea del tempo? Georges Franju. Uno che sapeva trasmettere inquietudine senza nessun trucco, con gli oggetti più ordinari del mondo: gli bastava farli muovere. Oggetti inerti all'Hotel des Invalides nel suo film omonimo: alla macchina da presa bastava muoversi per inquadrarli, ed eccoli caricati di un miliardo di incandescenti implicazioni e stratificazioni. Edith Scob (coprotagonista, appunto, di Holy Motors) con una maschera non fa nessuna paura: appena si mette a camminare nel suo Occhi senza volto, con la macchina da presa che la segue in un certo modo, è il terrore totale. C'è molto Franju nello stile che qui impiega Carax, nella sua inquieta nonchalance, nello strano torpore con cui impasta insieme i movimenti degli attori (lasciati dipanare con un ritmo disteso fino all'opacità) e i movimenti lenti, discreti, insinuanti della cinepresa.
In altre parole, Franju, del mistero del movimento, fu tra i sommi sacerdoti. La parola “mistero”, qui, non ha nulla di gratuitamente mistico, ma, se vogliamo, ha persino fondamenti scientifici. Non c'è verso di riuscire a scomporre il movimento in una serie di pose statiche tra le quali sarebbe estraibile una continuità mobile. No: il movimento (secondo Bergson/Marey/Deleuze) eccede sempre i tentativi di scomposizione analitica, c'è sempre una qualche discontinuità che complica le cose. E Holy Motors è costruito precisamente in questo modo: il movimento liscio e continuo di una limousine, che penseremmo equivalere al risultato composito di una sequenza di pose statiche (le singole maschere che il personaggio di Lavant interpreta e avvicenda) se non fosse, invece, attraversato da mille discontinuità, invenzioni improvvise, tangenti pazzoidi, imprevedibilità assortite, deviazioni inattese. In questo senso, il piccione che dal nulla si fionda sulla vettura è la cifra fondamentale di un film tempestato da continue, irresistibili discontinuità a sconvolgere il liscio fluire che ne sta alla base – quasi a ricordarci che il movimento è fatto di discontinuità. Non c'è digitale che tenga: il movimento non lo si può davvero creare a tavolino, lo si può solo ricalcare, riprodurre, rincorrere.

Un posto speciale, in questo unico e franto movimento ideale che è Holy Motors, ce l'ha l'episodio con la vecchia amante del protagonista da un passato che non ci è dato conoscere. Anche qui è ben presente sullo sfondo la motion capture. Perché in quest'ultima, la matrice del movimento, ovvero il corpo, c'è ma non si vede, perché l'unica cosa che si “vede” (si fa per dire) è il suo movimento. Anche l'amore tra i due, sappiamo che c'è stato ma non lo vediamo, è un'origine perduta, proprio come il corpo nella motion capture. E infatti nella sequenza in cui Lavant recita in uno studio di motion capture, c'è anche una scena di sesso – ma senza penetrazione, dunque sterile: l'origine viene ancora una volta tenuta fuori. L'immensa malinconia del film sta proprio in questo: sappiamo, soprattutto grazie alle allusioni a quell'amore passato, che Lavant un tempo fu “una persona vera”, non condannata come ora a passare di maschera in maschera. Questa “persona vera”, però, è definitivamente inattingibile (per quanto “ci sia stata”, a tutti gli effetti): per lui non c'è più corpo, ma solo il movimento che di volta in volta “veste” le successive metamorfosi. Come nella motion capture.