LESSONS OF LOVE

Il contributo di Fondazione Cariplo nell'ambito del progetto Grandi Speranze ha offerto la possibilità di creare uno spin-off del Locarno Film Festival in Lombardia, volto a rafforzare gli scambi culturali tra Milano e il Festival attraverso borse di studio e programmi di tutoraggio per i giovani filmmaker lombardi. In questo contesto è anche previsto un appuntamento formativo legato al film di Chiara Campara, Lessons of Love, che verrà proiettato presso il Cinema Arlecchino domenica 26 settembre alle ore 21.30 insieme ai film della rassegna Locarno a Milano, in cui le opere più interessanti del 74° Locarno Film Festival verranno mostrate al pubblico italiano. La regista Chiara Campara, già selezionata tra i partecipanti della Locarno Filmmakers Academy, sarà presente alla proiezione insieme al project manager dell'Academy Stefano Knuchel e alla direttrice della Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti Minnie Ferrara.

Unitamente a Lessons of Love saranno proiettati due dei videosaggi nell'ambito del progetto Grandi Speranze, riguardanti la retrospettiva sul cinema di Roberto Lattuada, proposta all'interno del 74° Locarno Film Festival, e realizzati dai ragazzi e dalle ragazze selezionati dal bando di Filmidee.

L'ingresso è gratuito, per prenotare il tuo posto scrivi a info@filmidee.it.


GRANDI SPERANZE:
LOCARNO A MILANO

Filmidee e Locarno Film Festival sono lieti di annunciare un rinnovato e ampliato coinvolgimento nella rassegna “le vie del cinema”, organizzata da Agis Lombarda. Saranno infatti ben tre le giornate – dal 24 al 26 settembre al cinema Arlecchino di Milano – in cui il pubblico potrà scoprire una ricca selezione di film presentati alla 74esima edizione del Festival, accompagnati dalle registe e dai registi, con il direttore artistico Giona A. Nazzaro e la selezionatrice Daniela Persico. L’iniziativa è resa possibile grazie al contributo di Fondazione Cariplo.

Dal 22 al 30 settembre 2021 torna uno degli appuntamenti più apprezzati dal pubblico cinefilo milanese: le vie del cinema, l’iniziativa organizzata da Agis Lombarda che offre una panoramica delle nuove produzioni presentate alla Mostra del Cinema di Venezia, al Locarno Film Festival e, quest’anno, anche a Cannes. Come di consueto, le anteprime verranno proposte sul grande schermo in versione originale con sottotitoli in italiano.

Tra le maggiori novità dell’edizione 2021, c’è una rinnovata e ampliata collaborazione con il Locarno Film Festival, che porterà a Milano alcuni dei titoli più rappresentativi della 74esima edizione, tenutasi dal 4 al 14 agosto. Dopo l’aperitivo di inaugurazione, venerdì 24 settembre in presenza del direttore artistico Giona A. Nazzaro, del direttore operativo Raphaël Brunschwig e della selezionatrice Daniela Persico, tre giornate – dal 24 al 26 settembre – saranno interamente dedicate ai film del Locarno Film Festival. Un’importante sala storica della città sarà il fulcro delle proposte locarnesi: il Cinema Arlecchino, che per l’occasione diventerà il quartier generale della manifestazione a Milano. Per festeggiare il primo anno della nuova collaborazione, i film saranno accompagnati dalle registe e dai registi, e introdotti dal direttore artistico Nazzaro e da Daniela Persico, membro del comitato artistico del Festival.

Il contributo di Fondazione Cariplo, ha offerto la possibilità di creare uno spin-off del Locarno Film Festival in Lombardia, all’interno del progetto Grandi speranze, volto a rafforzare gli scambi culturali tra Milano e il Festival attraverso borse di studio e programmi di tutoraggio per i giovani filmmaker lombardi. In questo contesto è anche previsto un appuntamento formativo legato al film di Chiara Campara, Lessons of Love.

Il programma di Locarno a Milano

I titoli di Locarno74 selezionati per la rassegna sono i seguenti:

Chute (Strangers)
di Nora Longatti – Svizzera, 2021 – Pardi di domani: Concorso nazionale – Pardino d’oro Swiss Life per il migliore cortometraggio svizzero (Domenica 26 Settembre, ore 15 - 17, Cinema Arlecchino)

I giganti
di Bonifacio Angius – Italia, 2021 – Concorso internazionale (Sabato 25 Settembre, ore 19, Cinema Arlecchino - ore 21.50, Cinema Beltrade)

Il faut fabriquer ses cadeaux (Gotta Fabricate Your Own Gifts)
di Cyril Schäublin – Svizzera, 2021 – Pardi di domani: Concorso Corti d'autore (Venerdì 24 Settembre, ore 21, Cinema Arlecchino)

L'Été l'éternité (Our Eternal Summer)
di Émilie Aussel – Francia, 2021 – Concorso Cineasti del presente – Premio speciale della giuria Cine+ (Domenica 26 Settembre, ore 15 - 17, Cinema Arlecchino)

Petite Solange
di Axelle Ropert – Francia, 2021 – Concorso internazionale (Sabato 25 Settembre, ore 17 - 21.30, Cinema Arlecchino)

Soul of a Beast
di Lorenz Merz – Svizzera, 2021 – Concorso internazionale – Menzione speciale e Premio ecumenico (Domenica 26 Settembre, ore 19, Cinema Arlecchino)

Zeros and Ones
di Abel Ferrara – Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti, 2021 – Concorso internazionale – Pardo per la migliore regia (Venerdì 24, ore 21, Cinema Arlecchino. Ospite speciale: il direttore artistico del Locarno Film Festival Giona Nazzaro)

Lessons of Love

di Chiara Campara  – Italia - Nell'ambito della collaborazione con Fondazione Cariplo (Domenica 26 Settembre, ore 21.30, Cinema Arlecchino. Ospiti speciali: Stefano Knuchel, project manager della Locarno Filmmakers Academy, e Minnie Ferrara, direttrice della Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti)

Il programma definitivo è online dalle 12.00 di oggi, venerdì 17 settembre. Sempre da oggi è anche possibile acquistare la Cinecard per seguire la rassegna, mentre i singoli biglietti saranno in vendita da martedì 21 settembre. In ottemperanza ai protocolli di sicurezza vigenti, anche quest'anno sarà possibile acquistare in prevendita Cinecard e biglietti sul sito de le vie del cinema. Le sale cinematografiche che ospitano i film de le vie del cinema rispettano i protocolli previsti dalla normativa italiana vigente per garantire la sicurezza di tutti: clicca qui per maggiori informazioni.

Scopri il programma completo qui: https://bit.ly/3AnfMv0


DAU: NATASHA

"...No, niente rimpianti
Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare
Come dei gabbiani ipotetici
E ora?
Anche ora ci si come sente in due
Da una parte l'uomo inserito
Che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana
E dall'altra il gabbiano, senza più neanche l'intenzione del volo
Perché ormai il sogno si è rattrappito
Due miserie in un corpo solo."
Qualcuno era comunista, Giorgio Gaber

Il tutto è falso

Come il Mito e la Storia si siano fusi vicendevolmente nel corso del Novecento, negandosi e ricongiungendosi in un’unica matassa di illeggibilità, è cosa tristemente nota e allo stesso tempo tutt’ora in corso, perché la fine della progressività storica non è altro che un costante ripetersi delle sue precedenti dinamiche, attuate in un gesto di violenza continuo che distrugge tutto per poi ricostruirlo con un ordine solo leggermente diverso, e questo labirinto di senso ha trovato nell’annientamento del confine tra realtà e finzione l’elemento definitivo che gli ha permesso di dilagare in tutta la sua spietata ambiguità, sconfiggendo il senso critico e osservando ogni cosa da uno scranno di divertito compiacimento, lo stesso scranno da cui si innalza l’ardua sfida di DAU, di Ilya Khrzhanovskiy, che oltre ad aver attuato uno sforzo produttivo di proporzioni mostruose nel rimettere in scena un intero istituto di ricerca Sovietico, ha tentato e tenta, in ogni sua diramazione, di ripercorrere l'abominio che soggiace alla mistura del vero con il falso, della vita con la sua riproduzione, avendo accolto  spesso nelle proprie maglie attori non professionisti (quasi come se fosse un’entità a sé stante dal suo creatore) che hanno interpretato le stesse mansioni da loro ricoperte in passato nella vita vera (agenti del KGB impersonano agenti del KGB, scienziati impersonano scienziati, artisti impersonano artisti), rinchiusi in questo immenso spazio costruito in Ucraina per tre anni, trascorsi i quali nessuno spettatore che abbia fruito di DAU in ogni sua forma, che sia essa un'installazione artistica o un film, è mai riuscito a proteggersi dall’intensità emotiva esondante che ne è scaturita, sebbene avvisato che in questo caso quello che stava accadendo (non solo che era accaduto) non era esclusivamente un reale funzionalmente riprodotto, ma era anche compiuto per la maggior parte, appunto, dai medesimi protagonisti che lo avevano vissuto più di quarant’anni fa, nel teatro dei crimini dell’Unione Sovietica, conducendo così da subito il senso di questo meditare doloroso sull'anfratto di disillusione che è stato il tradimento dell’ideale Socialista, quella deviazione dalla fine ingloriosa dell’incedere novecentesco che si è dimostrata solo come un altro affluente che ci avrebbe condotto alla catastrofe post moderna.

Il falso è tutto

Di questa disillusione il capitolo DAU: Natasha è forse il re-enactment artistico più chiaro e lucido degli ultimi anni, che riesce, raccontando la storia dei soprusi subiti da una delle cameriere impiegate in questo istituto di ricerca, a enucleare tutto ciò che di più inevitabilmente chiaro esiste nella progressiva messa a conoscenza di questa confluenza tra cinema e vita (nel duello già perso dal Mito e già vinto dalla Storia) e a far sì che il pubblico ancora una volta non possa distogliere lo sguardo durante le scene più esplicite, lasciando che tutto l’affronto di DAU dopo la visione si apra attraverso la magniloquenza, forse volutamente sprecata, della sua realizzazione (in quanti poi conoscono lo sforzo produttivo su cui è stata costruita questa opera straordinaria? Non saprei di preciso, ma conosco il numero di sale in cui è stato distribuito in Italia: 8), realizzazione la cui verità cinematografica risiede in quell’atto quasi pornografico tipico del mettere un confine tra il reale e la sua estensione platonica, fino a far risultare la brutalità un gesto di liberazione proveniente dall’abbattimento di questo confine, all’interno di un Presente in cui quel che resta del cinema viene percepito come la messa in scena di un mondo ideale e non del mondo com’è o è stato; ma, lo abbiamo già scritto, ieri e oggi sono, in questi ultimi decenni, concetti piuttosto evanescenti.


LOCARNO 74: MONDI CHE ALIENI NON SONO

Tra associazioni ufologiche, veggenti con lAlzheimer e servizi di cronaca nera, Espíritu Sagrado di Chema Garcia Ibarra – presentato in Concorso internazionale e vincitore di una Menzione speciale a Locarno 74 – racconta i pericoli e le implicazioni delleccessiva credulità. In un quartiere operaio di Elche scompare una bambina: la sorella gemella ne diventa il cartello segnaletico vivente, mentre il suo introverso zio cerca prove sugli extraterrestri con un gruppo male assortito di credenti.

Garcia Ibarra muove la sua storia in un silenzioso gioco di contrasti visivi e tematici: le pareti di un caffè di quartiere sono contaminate dalle gigantografie delle piramidi di Giza, il modesto appartamento del protagonista è ricco di simulacri esoterici e, in generale, le suggestioni del paranormale – qui nelle sembianze di un’oggettistica kitsch e ipersatura – interferiscono sulle normalissime vite dei personaggi. Le suppellettili, gli schermi dei cellulari e le televisioni accese (in un contrasto anche tecnico tra le riprese analogiche e il digitale immortalato) restituiscono un repertorio di ambienti eloquenti, più dei laconici personaggi che li abitano.

La direzione registica e narrativa è piuttosto decisa: con il pretesto dei guizzi soprannaturali e l’attesa del paranormale ci si apre ai risvolti grotteschi della realtà. Si coglie uno sguardo ironico sulle bizzarre consuetudini dei complottisti senza però cedere a una cronaca derisoria; l’umorismo infatti è arginato da un contesto più serio, che tende a dimostrare con distaccato cinismo che l’interpretazione del mondo deve essere radicata nello scetticismo. Al contrario di quanto sostenuto autonomamente dall’istanza narrante, ogni personaggio si riferisce invece a un sistema di credenze disperato, nella tendenza a trascendere fatti e pericoli ben più terrestri. [Rebecca Ricci]


Fuga dalla realtà

mostro

Mostro di José Pablo Escamilla (che firma l'opera a nome al Colectivo Colmena), presentato nel Concorso Cineasti del presente a Locarno 74, è un film che racconta la sofferenza quotidiana e concreta di un popolo (la vicenda si svolge in Messico) attraverso i connotati della distopia e del fantastico. Mostro è il soprannome del protagonista del film, un giovane dolce e sensibile, introdotto nella storia dentro una prigione fatta di corridoi angusti e imballaggi opprimenti; quelli di una fabbrica (una maquilas) alla periferia di una grande città. La sua personalità emerge soltanto nel sentimento d’amore (quasi platonico) che prova verso una ragazza piena di vivacità ed energia, distaccata, ribelle: i due insieme si rifugiano in uno spazio bucolico, un luogo di confine estraneo a quello della città, dove la desolazione regna sovrana e dove i due si sono costruiti un piccolo rifugio, addobbato come una navicella spaziale.

Il rifugio è un non-luogo dalle forte suggestioni visive, connotato da una luce densa, quasi incisa; è freddo ma intimo e al suo interno i due parlano di alieni e spazio, come in una fuga per evadere dalla quotidianità terrena. Per poter comunicare con lo spazio i due utilizzano un gas allucinogeno. Tramite questa soluzione immaginifica la realtà rappresentata nel film si spezza: si entra in una visionaria sequenza onirica, fatta di immagini/ricordo e vite parallele (realizzata da un artista concettuale-visivo e non dal regista stesso). Sono tre le sequenze allucinogene che troviamo distribuite lungo il film, tutte prodotte da diversi artisti messicani; ricordano l’inconscio del protagonista, ma anche di un popolo che ha una grande componente creativa e poetica, raggiungibile spesso soltanto nei sogni. Al risveglio dal percorso onirico Mostro si ritrova a fuggire dalla polizia; dopo la fuga però la sua ragazza è completamente sparita.

Comincia così un viaggio alla ricerca del suo amore perduto, un viaggio fatto di lunghe ed estenuanti camminate in un ambiente oscuro, desolato e severo. Il film affronta l’importante tema delle sparizioni – soprattutto femminili – in Messico riservandogli il ruolo di evento drammaturgicamente centrale. L’impossibilità del protagonista di trovare la ragazza di cui è innamorato e la mancanza di collaborazione della polizia sono temi appendici a conferma della centralità di questo snodo tematico. Le lunghe sequenze di camminate presenti nel film sono poi la denuncia – come dichiarato dagli stessi autori – della condizione di una fascia di persone che non possiede un veicolo e deve coprire lunghe ed estenuanti distanze. Queste immagini risultano ipnotiche sullo schermo e portano lo spettatore a sentire da vicino, a intendere la condizione mentale e fisica di un’alienazione disumanizzante.

Realizzato con una componente tecnica molto simile al documentario – un impianto leggero e una crew che ricopriva a turni diversi i ruoli –, al netto della fotografia da grande film di finzione, Mostro è un film dalla forte carica sociologica, con un potente impianto di narrazione e un linguaggio visivo che trascende le parole e le didascalie più didattiche. In Mostro il cinema e le immagini forniscono una potente prova della propria forza linguistica: la narrazione di finzione diventa il mezzo per fuggire dalla realtà, resa, invece, dialetticamente dall’impianto e dallo stile documentaristico. Il risultato è un grande esercizio di narrazione per immagini, prima sullo schermo e poi fuori, perché uscendo dalla sala viene da chiedersi se il vero mostro non sia la società in cui viviamo. [Antonio Morra Des]

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https://www.filmidee.it/2021/08/locarno-74-brotherhood-anatomia-fratellanza/


CHRIS MARKER:
L'ARTE DEL RICORDO

Non son proprio sicuro, ma mi pare che nel primo pezzo che scrissi per questa rivista c'era una citazione tratta da un film di Marker. È strano, non saprei nominare un altro regista che, quando compare nella mia mente, sia così legato alla memoria: arriva come un ricordo, ne porta con se tanti altri. Anche Tommaso Santambrogio, autore di questo ricordo, ha la stessa impressione, e immagino che tutti, pensando alle opere dell'immortale regista francese che quest'anno compie 100 anni, facciano un tuffo nei ricordi. Un autore immensamente discreto, di cui sappiamo poco o nulla della vita privata, ma che ha fatto della sparizione una prassi audace: un ribaltamento teso alla concretezza dell'essere. Marker si è annullato per unirsi a noi, per unirsi al mondo, e ci accompagna ancora oggi per mano nel nostro passato, personale o collettivo che sia. La sua poesia sa renderci più romantici e più radicali, spensierati e attenti. Un continuo altalenarsi fra percezione e realtà: la quintessenza del Cinema. [Davide Perego]

"Vi scrivo da un paese lontano..."

Sono le parole che aprono Lettre de Sibérie (1958), uno dei film più importanti nell’opera di Chris Marker e spartiacque nella storia del cinema, ed è da un paese lontano e frequentato dallo stesso Marker (Cuba) che mi trovo a scrivere in occasione del centenario della sua nascita (29 luglio 1921).

È proprio in una nota biografica che accompagnò l’uscita di Cuba Si, film realizzato nel 1961 (due anni dopo il golpe castrista nell’isola caraibica), che è riportato: «Un giorno dell’anno 1921, in una qualche parte del mondo, nasce qualcuno che si chiamerà più tardi Chris Marker», donando alla critica e al pubblico una delle rare informazioni biografiche che si hanno sul regista.

Un mistero che avvolge la sua vita e che lui stesso ha saputo maneggiare con intelligenza, confondendo le informazioni relative alla sua storia per sottolineare la centralità dell’opera artistica, l'unica modalità con la quale desiderava raccontarsi. Di lui sappiamo solo che nacque in un sobborgo di Parigi, sotto il nome di Christian-François Bouche-Villeneuve – anche se diverse fonti sostengono che nacque a Ulan Bator, in Mongolia, da madre russa. Non sappiamo nulla riguardo alla sua formazione, se non che lungo il suo percorso ha studiato filosofia con Sartre e che successivamente, durante la seconda guerra mondiale, ha lavorato come traduttore e paracadutista a supporto degli americani.

Il più filantropo dei misantropi: viaggiatore, scrittore, videoartista, illustratore, fotografo, musicista, cineasta e informatico. Sarebbe quindi sbagliato provare a circoscrivere "l'universo" Chris Marker – il suo sguardo sull’universo – catturato nel tempo e nelle forme da differenti eteronomi e moltitudini in cui si riconosceva (Sandor Krasna, Jacopo Berenzi, Fritz Markassin... tutti personaggi e alter-ego che contraddistinsero i suoi lavori).

Tra queste sue personalità – che ha stratificato e costruito fin nei minimi particolari – rientra anche quella di un gatto (Guillaume-en-Egypte), l'animale feticcio con cui ha sempre amato farsi rappresentare, oltre alle adorate civette e balene. È facile notare come spesso, nei suoi lavori, l’attenzione della camera fosse inevitabilmente attratta da questi animali, cogliendone la grazia, l’introspezione, la sensibilità e la perspicacia (troviamo un esempio ne L’ultimo Bolscevico, del 1992, dove, a metà dell'opera, osserviamo un commovente interludio di 3 minuti dove il gatto si gode con sorniona beatitudine la musica.

Poliedrico ed estremamente acculturato (tanto che lo scrittore Henri Michaux provocatoriamente affermerà: «Bisogna abbattere la Sorbona per mettere al suo posto Chris Marker»), venne definito dal collega e amico Alain Resnais “il prototipo dell’uomo del XXI secolo” per la sua insaziabile curiosità nei confronti delle novità espressive e linguistiche, per la capacità divinatoria – tipica solo dei grandi artisti – di raccontare e cogliere propensioni e direzioni verso cui si indirizzava il mondo.

Fu il primo a raccontare le innovazioni politico-sociali e le rivoluzioni (dalla Cuba degli anni '50 alla testimonianza dei primi anni di Israele, oltre alla polemica sulla guerra di Algeria e la narrazione della Parigi nel maggio del ‘62), a cogliere le potenzialità di nuovi mezzi e annessi linguaggi come il Cd-Rom (straordinario il lavoro Immemory, un archivio-memoria summa dell’universo markeriano e una sorta di contenitore ideale della memoria personale di un uomo, in cui l’autore raccolse riferimenti, stimoli e spunti che cercò di salvare dalle grinfie del tempo) e a sperimentare nuove forme d’arte espressiva che gli permettessero di raccontare l’essenza del mondo e dell’animo umano.

Marker rivoluzionò il documentario e frantumò il confine fra cinema ed arte, con la tenacia di non essersi mai piegato a stilemi o canoni pregressi, ma lasciando che la sua intelligenza si muovesse libera, in maniera quasi infantile, guidate dalla curiosità e dalla più pura urgenza espressiva. Le prime sensazioni che i suoi film mi hanno sempre suscitato, immagino come a molti, sono la giocosa passione che guida ogni sua inquadratura e contemporaneamente l’istintiva perspicacia di chi danza sul tempo, con una stratificazione linguistica unica e inimitabile.

Fin dai primi film elaborò uno stile narrativo-artistico molto personale, che lo portò a riflettere sulle tematiche che hanno poi contraddistinto per l’intera esistenza i suoi lavori; già dalla prima collaborazione con Resnais su Les Statues meurent aussi (1953), affronta infatti la tematica della memoria e dell’eredità artistica nelle società post-coloniali, o in Olympia 52 (1952) dove concentra il suo sguardo sul viso umano dei soggetti piuttosto che sulla folla oceanica che prese parte alle olimpiadi. O ancora in Dimanche a Pekin (1956) e in Cuba Si (1961), in cui racconta la sua esperienza, il suo stato d’animo e la sua ricerca in relazione a fenomeni storici oggettivi, raggiungendo un punto di vista analiticamente personale anteposto alla camera. In Lettre du Sibérie (1957) riesce poi a fare quello che Bazin definirà come «un saggio in forma di reportage cinematografico sulla realtà siberiana passata e contemporanea [...] adattando la formula usata da Vigo per À propos de Nice ("un punto di vista documentato"), direi: è un saggio documentato attraverso il cinema. Dove la parola chiave è saggio, inteso nello stesso senso che ha in letteratura: un saggio storico e politico, ancorché scritto da un poeta». E ancora: «L’elemento originario è la bellezza del sonoro, ed è da qui che la mente viene condotta verso l’immagine. Il montaggio procede dall’orecchio all’occhio».

In sintesi, Marker ha inventato un nuovo approccio al montaggio (definito “orizzontale”, in quanto parte dal sonoro e dal commento scritto dall’autore per andare poi a definire la narrazione visiva) introducendo allo stesso tempo una forma innovativa di “saggio” nel mondo del cinema, dando un nuovo sapore e valore al commentaire (il commento in voice-over sulle immagini), e creando una versione nobile del travelogue (una testimonianza epistolare dell’esperienza del viaggio).

Nel suo percorso cinematografico si è poi "cinementato" in un lavoro ciclopico quale Le Joli Mai (1962), in cui adotta un approccio personale di cinema-verità. In questo film, grazie alle interviste frontali, indaga e analizza il tessuto sociale parigino dopo l’immediata fine della guerra d’Algeria. Lo stesso anno realizzerà quello che è considerato uno dei film più innovativi e d’impatto della storia del cinema, La Jetèe (1962): «28 minuti di un uomo segnato da un’immagine della propria infanzia». La prima volta che vidi questo film ebbe un effetto sconvolgente; tuttora è un lavoro che posso considerare come una ferita aperta nella mia esperienza artistica e in cui mi ritrovo spesso a cercar rifugio, come è possibile fare solo nei grandi amori e nelle grandi opere che trascendono il tempo e lo spazio. «L’amore sono lo spazio e il tempo resi sensibili al cuore», scriveva Proust, ed è questa la sensazione che provo ancora di fronte all’opera di Marker.

La Jetèe è un fotoromanzo ambientato in un contesto distopico post-apocalittico, in cui la vicenda di un uomo costretto da inquietanti scienziati a viaggiare nel passato e nel futuro (i suoi ricordi generano l’energia necessaria per una ripartenza della specie umana), tocca tematiche quali la centralità della memoria nell’esperienza umana, l’angoscia e la ciclicità del tempo, ma soprattutto l’amore, unica e perfetta icona di felicità. Marker racconta la vicenda di un uomo che, davanti a un avvenire sicuro ma privo di amore, sceglie invece di rivivere un passato contraddistinto dall’immagine della donna amata e cementificata nella sua memoria fin da bambino. Non è un caso che quando Marker tra i suoi film preferiti abbia spesso citato Vertigo di Hitchcock, oltre ad Ali (1927) di William Wellmann e a Aileta (1924) di Yacov Protazanov. Vertigo, come La Jetèe, è un film percorso dal desiderio di vincere il tempo dove è più difficile farlo, cioè sul terreno dell’amore perduto/morto. Il mito del ritorno, come quello di Euridice ed Orfeo, sarà alla base di molti altri lavori successivi dell’autore francese.

Level Five (1997) ne è un chiaro esempio. Laura (Catherine Belkhodja), dialogando direttamente con lo schermo e dunque con l’osservatore, si trova a portare a termine un videogioco sulla battaglia di Okinawa che il suo compagno, appena scomparso, non è riuscito a terminare. Quella di Laura (e dunque di Marker) è una ricerca volta a completare un linguaggio che permetta di tornare indietro nel tempo – quello storico della feroce battaglia di Okinawa e quello personale del lutto della persona amata – per poi ritrovarsi a sfogliarlo e ripercorrerlo senza fretta, tramite un divertissement (il videogioco) che pone le radici nell’urgenza più profonda dell’essere umano: quella di sconfiggere la morte, di superare il terrore del fallimento e avere una seconda chance, una seconda vita che ti permetta di rimediare ai propri errori e di godere del presente come è possibile fare solo quando è già passato. Una seconda vita che Marker stesso ha creato tout court nella realtà virtuale, in Second Life, dove con il profilo del suo alter ego felino Guillaume-en-Egypte dà vita a un’isola virtuale immaginata sulla falsariga dell’ambientazione di L’invenzione di Morel, libro scritto dall’autore sudamericano Adolfo Bioy Casares che Marker stesso indicò ai curiosi come opera d’arte esaustiva di tutto ciò che lo riguarda.

Chris Marker realizzò poi tantissimi altri film, alcuni su personaggi mitologici come Alexandre Medveskine (Le Tombeau d’Alexandre, 1992) – regista russo di capolavori sommersi realizzati negli anni ’30 sul Cinetreno –, altri veri e propri omaggi a maestri quali Akira Kurosawa (A.K., 1985) e Andrei Tarkovskij (Une journèe d’Andrei Arsenevitch, 2000). Il suo contributo si estese poi – soprattutto nei primi anni del suo ricco percorso artistico – a romanzi o saggi come quello su Jean Giraudoux, a collaborazioni come quelle che portarono alla realizzazione dei Petite Planete (raccolta di libri fotografici che racchiudevano gli scatti realizzati da Marker nei suoi innumerevoli viaggi) o di articoli per riviste come Travail et Culture.

Per concludere, non possiamo esimerci dal citare Sans Soleil (1982), considerato il film-saggio per eccellenza, l’elegia dell’immagine, annoverabile tra le opere fondamentali del Novecento sul tema del ricordo. Tramite la voce narrante di Florence Delay e lo sguardo di un cameraman, Sandor Krasna – che attraversa nel tempo e nello spazio Giappone, Guinea Bissau, l’Islanda, Île-de-France, Stati Uniti (ripercorrendo i luoghi in cui è ambientato Vertigo a San Francisco) e Capo Verde –, Marker da vita a un flusso di memorie, immagini, riflessioni malinconiche e sguardi eterni. Sans Soleil è forse l’opera che meglio raccoglie l’universo Marker, con i suoi lampi sinestetici, lo scorrere di emozioni, immagini che «sono la mia memoria». Il regista si domanda «come fanno a ricordare le persone che non filmano, che non fotografano, che non registrano, come ha fatto finora l’umanità per ricordare?». Tramite la sua complessa stratificazione e la contestuale immediatezza emotiva, è un film che riesce ad emozionare, a incidere nella memoria dello spettatore frasi ed immagini, come quella dei tre bambini islandesi all'inizio del film che rappresentano «l’immagine stessa della felicità», o come la riflessione sulla preminenza dell’assenza sulla presenza, del non-essere sull’essere («Chi l’ha detto che il tempo viene a capo di tutte le ferite? Sarebbe meglio dire che il tempo viene a capo di tutto tranne che delle ferite. Con il tempo la piaga della separazione perde i suoi margini reali. Col tempo il corpo desiderato non ci sarà più, e se il corpo che desidera ha già cessato di esserci per l’altro, ciò che resta è una piaga senza corpo»).

L'opera e la vita di Chris Marker devono continuare ad essere uno stimolo per ogni regista contemporaneo. I suoi film accendo il dibattito attorno alla nostra libertà di espressione, tornano a farci desiderare ed affermare l'esigenza di un cinema più personale e più libero. Terminando con un ritorno al principio dell’articolo – dalla "spiralità" del tempo non è esente neanche la scrittura – in Lettre de Sibérie Chris Marker annotava che «l’arte è ciò che rimane, quando tutti se ne sono andati via» per poi aggiungere, citando Prevost, che «la morte non è così grave, consiste solamente nel raggiungere tutto ciò che abbiamo amato e perduto. La morte del cinema non sarà che quello, un immenso ricordo».

Ed è dunque in questo ricordo che un grande spazio sarà per sempre occupato dalla sua intelligente, ironica e umana arte e dalla sua curiosa, straordinaria e misteriosa figura.


LOCARNO GRANDI SPERANZE:
PROFILI SELEZIONATI

In seguito all'arrivo di numerose candidature in merito al progetto Locarno Grandi Speranze, ideato dall’associazione Filmidee, insieme a Locarno Film Festival e Agis Lombarda con il contributo di Fondazione Cariplo, i profili selezionati per le borse di studio sono i seguenti:

 

Tommaso Santambrogio

Giulia Oglialoro

Giulia Zini

Pietro Floris

MariaVittoria Daquino

Gilda Panizza

Rebecca Ricci

Tommaso Frangini

 

Inoltre grazie all'alta qualità delle candidature ricevute saranno inclusi nel progetto ulteriori otto profili:

 

Claudio Balboni

Mattia Borgonovo

Antonio Morra

Gabriele Umidon

Luca Grazioli

Eva Olcese

Chiara Asia Carnevale

Chiara Delbecchi

 

I filmmaker e i critici selezionati alloggeranno al BaseCamp, uno spazio per i giovani del Locarno Film Festival, nato in collaborazione con il comune di Losone. Oltre a permettere a duecento giovani di soggiornare gratuitamente nella regione dal 4 al 14 agosto, il BaseCamp è un’occasione d’incontro unica, un’esperienza comunitaria condivisa in cui 200 ragazzi vivranno insieme per dieci giorni condividendo progetti creativi ad hoc e la vita del Festival: un tutor seguirà da vicino i partecipanti, permettendo di cogliere al meglio l’opportunità tra incontri professionali e scrittura critica.

Inoltre, a partire dall'ultima settimana di settembre si terrà Locarno a Milano: una serie di proiezioni di alcuni film selezionati dal concorso ufficiale del Locarno Film Festival, con lo scopo di valorizzare lo scambio di contenuti di alta qualità artistica e culturale tra il capoluogo lombardo e uno dei festival più importanti del mondo.

PIAZZA GRANDE


PER LUCIO

«Ma naturalmente per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla.»

(Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari)

«Chi è Lucio Dalla?» - «Io». Così risponde Dalla durante una delle interviste d’archivio che appaiono nel documentario di Pietro Marcello Per Lucio, presentato a Berlino lo scorso marzo e nelle sale italiane in questi giorni. Una risposta che racchiude il nucleo profondo del film del regista campano, dove il bisogno di spiegare il personaggio e darne un giudizio lascia lo spazio a una narrazione più umana, a una necessità di riportare il punto di vista verso quel profondo “io”, da cui non si può prescindere per evocare la poesia dei versi dell’artista bolognese.

Il documentario ripercorre la carriera musicale di Dalla, raccontando gli inizi e concentrandosi soprattutto sul periodo di collaborazione con Roberto Roversi. Pietro Marcello apre il film con le dichiarazioni di Tobia (Umberto Righi, il manager storico) al quale affida le redini del discorso su Lucio, introducendo solo da metà in poi un secondo personaggio, il filosofo e amico d’infanzia Stefano Bottarga. I racconti di Tobia prima, e dei due poi, sono fatti di aneddoti, episodi che rivelano particolarità e difetti di una personalità eccentrica e istrionica sì, ma prima di tutto di un amico. Lo stesso dialogo tra i due, che avviene di fronte alla tavola di una tradizionale osteria bolognese, è costruito come una chiacchierata tra amici, dove ciò che conta è il ricordo, velato di una sfumata nostalgia, e molto viene lasciato al non detto. La macchina da presa diventa un terzo interlocutore, una silenziosa ma palpabile presenza, che non reclama però alcuna spiegazione né contestualizzazione: Pietro Marcello non fornisce annotazioni biografiche che non emergano naturalmente dalle rievocazioni aneddotiche di Tobia e Stefano, in una chiara e coerente scelta autoriale che lascia allo strumento evocativo il compito di restituire le idee, i pensieri, e la presenza di Dalla.

Lucio Dalla è proprio questo, una “presenza”, come dicono i due amici, tanto che se ne parla sempre al presente. Ecco quindi che il documentario lo evoca, nelle parole degli amici ma anche, e forse soprattutto, nei filmati d’archivio che accompagnano le sue canzoni, e che costituiscono l’altra parte del film, quella più poetica e più viva.

Pietro Marcello costruisce infatti il suo documentario su uno scambio biunivoco tra le canzoni di Dalla, dalla grande forza visiva, e i filmati d’archivio, creando un dialogo continuo che parafrasa i versi e li associa alle immagini dell’Italia del secondo Novecento. Si intravedono le migrazioni del meridione verso il Nord industriale, le proteste studentesche degli anni Settanta, l’attentato alla stazione di Bologna del 1980, le campagne via via più vuote e abbandonate; un’Italia in fermento, verso uno sviluppo di tipo pasoliniano, che lascia alle spalle senza troppo rammarico quella cultura contadina tanto cara a Dalla e soprattutto a Roversi.

Nella costruzione di questa parte del film, le canzoni e i filmati sembrano arricchirsi a vicenda e caricarsi di un significato collettivo, testimoni di quel mutamento antropologico che lo stesso Pasolini avvertiva nella società italiana del boom economico. Attraverso la combinazione dell’elemento sonoro e di quello visivo, Per Lucio si trasforma in un componimento poetico, un’opera che utilizza il popolare per innalzarsi all’universale. Ascoltare e osservare diventano un unico, inseparabile atto che evidenzia in maniera più profonda quella perdita progressiva di pietà nella Storia, che Dalla cantava con una consapevolezza che solo l’affetto e il rispetto verso il mondo popolare possono dare.

C’è una forte continuità in Per Lucio con i film precedenti di Marcello. Non soltanto con La bocca del lupo, del quale il regista riutilizza qui alcune scene, o con Il passaggio della linea, di cui ritorna un immaginario simile, in un filmato d’archivio che ritrae il profilo di Lucio Dalla a bordo di un treno, ma anche, e forse soprattutto, con il più recente Martin Eden. Così come Marcello parte dal romanzo di Jack London e attraverso il suo protagonista naviga lungo le ideologie del Novecento, esplorandone meccanismi e strascichi, così il suo Lucio Dalla diventa profeta e interprete dello spirito del tempo, dell’Italia del dopoguerra e del boom economico e delle sue mutazioni.

Se Per Lucio si presenta inizialmente come dedica e atto d’amore soggettivo di Pietro Marcello al cantautore bolognese, filmato dopo filmato, intervista dopo intervista, si rivela sempre di più come una dichiarazione universale di un modo di intendere l’arte e la poesia che ha molto a che fare con la Storia, la ricerca antropologica e l’impegno politico.


LOCARNO GRANDI SPERANZE
CALL FOR ACTION

L’associazione Filmidee, insieme a Locarno Film Festival e Agis Lombarda con il contributo di Fondazione Cariplo, ha messo a punto un’azione pensata per valorizzare l’ingresso nel mondo del cinema internazionale di giovani professionisti dell’area lombarda. Otto borse di studio, rivolte a giovani registi e critici che sono domiciliati in Lombardia per nascita o motivi di studio, permetteranno di seguire l’attività del Locarno Film Festival da protagonisti. Questo progetto è stato pensato per favorire lo scambio tra il settore cinematografico lombardo e il grande festival internazionale più vicino (geograficamente e idealmente) a Milano.

I filmmaker e i critici selezionati alloggeranno al BaseCamp, uno spazio per i giovani del Locarno Film Festival, nato in collaborazione con il comune di Losone. Oltre a permettere a duecento giovani di soggiornare gratuitamente nella regione dal 4 al 14 agosto, il BaseCamp è un’occasione d’incontro unica: è un’esperienza comunitaria condivisa in cui lo spirito di adattamento e d’iniziativa saranno indispensabili. 200 ragazzi vivranno insieme per dieci giorni condividendo progetti creativi ad hoc e la vita del Festival: un tutor seguirà da vicino gli otto partecipanti lombardi, permettendo di cogliere al meglio l’opportunità tra incontri professionali e scrittura critica. Per ulteriori informazioni sul BaseCamp cliccate qui.

Proprio per la natura unificatrice e per le condizioni di soggiorno del BaseCamp la situazione ideale per tutti prevede che coloro che verranno selezionati abbiano già effettuato entrambe le dosi del vaccino anti covid, per poter procedere in serenità e allegria durante questi giorni di festa e arte condivisa.

Il Festival offrirà, assieme a un accredito, il soggiorno al BaseCamp per i candidati che si presenteranno tramite questo bando. Il collegamento tra il BaseCamp a Losone e il cuore del Festival sarà costante, aprendo così a ragazze e ragazzi le porte sul palcoscenico di uno dei Festival cinematografici più importanti del mondo.

La 74esima edizione del Locarno Film Festival si terrà dal 4 al 14 agosto 2021.

Per partecipare al bando potete scrivere a info@filmidee.it, con oggetto RESIDENZA LOCARNO GRANDI SPERANZE e in allegato cv (con luogo e data di nascita, scuola/università che si sta frequentando, link a film realizzati o articoli scritti) e lettera motivazionale. La scadenza per la presentazione delle candidatura è prevista per Domenica 11 luglio.


MY OCTOPUS TEACHER

I'd like to be
Under the sea
In an octopus'garden
In the shade

We would sing
And dance around
Because we know
We can't be found

(Octopus's garden, Beatles)

Questo articolo è dedicato a Inky, il polpo evaso dall'acquario
nazionale neozelandese nel 2016 e a tutti gli animali resistenti.

In Cosa può un corpo? Deleuze si serve dell'immagine della “sequenza” - alludendo all'unità di misura costituente lo “specifico cinematografico”- per evidenziare come, per essere compreso, un concetto non abbia bisogno di nessuna rappresentazione, semmai di una sua collocazione in un insieme concettuale. Deleuze si riferisce alla emancipazione del concetto di Dio prodotta dal cristianesimo, e cioè a un vero e proprio processo di liberazione dell'immagine dal dato concreto a cui viene abitualmente associata. Nelle sue lezioni su Spinoza Deleuze voleva enfatizzare come la rivoluzione filosofica cristiana amplifichi il concetto di Dio fino a materializzarlo come "l'insieme delle possibilità di emancipazione" e la sua immagine come "una danza pura in cui le linee e i colori non dovevano più essere verosimili o esatti, né tantomeno assomigliare ad alcunché". Insomma attraverso il processo di liberazione dalla realtà e dalla sua rappresentazione, l'artista poteva rendere esperibile l'idea di Dio come una serie infinita di possibilità.

Mi si perdoni la disinvoltura nell'accostare il sacro al profano, ma My octopus teacher, film vincitore della novantatreesima edizione dei premi Oscar del 2021 come miglior documentario, contiene, al di là delle sue intenzioni e dei suoi meriti (ci sono e sono molteplici), una innegabile fascinazione per la questione, quantomai etica, delle potenzialità di un corpo.

A dispetto della confezione, che rimanda a certo estetismo etologico alla Attenborough e alla struttura, che esplicita la sua vocazione rappresentativa cara al cinema di finzione dove è il racconto dell'incontro tra un uomo e un animale selvaggio a prendere decisamente il sopravvento sul resto, il film riserva più di una sorpresa.

Fin dal titolo originale infatti My octopus teacher, diretto da Pippa Erlich e James Reed sotto la supervisione del filmmaker Craig Foster che l'ha prodotto e interpretato, sembra spostare l'attenzione dall'impianto antropocentrico, che risponde efficacemente alla canonica richiesta di sviluppo narrativo propria del cinema di intrattenimento con tanto di prologo ed epilogo, a quella cognizione incarnata espressa dall'intelligenza di un corpo. Un corpo invertebrato come quello di un polpo, la cui particolare morfologia è in grado di definire e modificare l'ambiente in cui vive e si relaziona. Secondo Peter Godfrey-Smith "La struttura del corpo di un animale crea al tempo stesso vincoli e opportunità che ne guidano l'azione". Ma, a un'analisi più circospetta, il polpo sembra tradire anche questa teoria: la morfologia del suo corpo privo di vertebre e scheletro è talmente informe da costituire una serie pressoché infinita di possibilità formali da assumere. "Il polpo ha una incarnazione diversa di un tipo talmente insolito da non corrispondere a nessuna delle consuete prospettive".

La domanda che molti anni fa si pose il filosofo Thomas Nagel, what it's like?, a proposito di cosa si prova a essere un pipistrello cercando di ribaltare la prospettiva antropocentrica umana è la stessa di Craig Foster nel film: come è essere un polpo?

Nella parte iniziale del film Foster racconta la sua esperienza nel deserto del Kalhahari centrale al seguito dei cacciatori di orme di hidden animals, animali nascosti difficilmente visibili agli occhi inesperti di un forestiero e, d'altra parte, affascinante materia di studio per la criptozoologia. Il documentarista confessa la sua frustrazione nel prendere coscienza di quanta distanza possa esservi tra un bianco benestante e privilegiato e un ambiente ostile e completamente estraneo come quello caratterizzato dalla natura estrema del deserto: "Non volevo vedere più una telecamera...non ero parte di quel territorio...dovevo cambiare prospettiva", esclama a un certo punto.

Il ritorno a casa a Capo delle Tempeste, nella parte sud-occidentale del Sud Africa, è caratterizzato dalla consapevolezza di essere arrivato a un momento decisivo della sua vita ed è proprio il mare a indicargli la nuova strada da percorrere. Tornare a immergersi nell'oceano, iconicamente scandito dalla ripresa in dettaglio dei suoi piedi mentre camminano sul fondo del mare, significherà intraprendere quel percorso che lo porterà a incontrare la piovra e che segnerà profondamente il resto della sua vita. Per cambiare radicalmente prospettiva dobbiamo tornare ad affidarci ai nostri sensi e abbandonare le nostre aspettative antropocentriche. Foster, immergendosi nelle acque di Western Cape, ecosistema marino caratterizzato da vastissime foreste di alghe Kelp, si lascia sorprendere, forse per la prima volta, da ciò che vede. Il primo incontro con il suo nuovo insegnante infatti assume il modo dell'illusione ottica. Il polpo, agli occhi del sub e ai nostri di spettatori, si trasforma in una particolare architettura fatta di gusci di conchiglie, carcasse di crostacei e coralli. Nascosto in questi scarti organici il polpo diventa un'opera d'arte vivente che finisce per ingannare tutti i nostri preconcetti.

Quando i due cominciano a toccarsi entrano in relazione. Il contatto provoca l'evento e sia Foster che il polpo vengono travolti da un processo di cambiamento e rinascita. È vero che le piovre possono cambiare aspetto, come mostra la straordinaria fotografia di Roger Horrocks con il quale Foster ha trascorso un anno intero sott'acqua – un arco di tempo corrispondente più o meno alle aspettative di vita di un polpo -, trasformandosi in rocce, mimetizzandosi con la sabbia del fondo marino o assumendo con il loro corpo “libero” da ogni costrizione morfologica qualsiasi forma voluta, ma è altrettanto vero che queste forme di vita possiedono una sofisticatissima agenda di problem solving con cui affrontare l'ambiente in cui si trovano a relazionarsi. Quando un elemento estraneo come l'uomo irrompe nello spazio vitale di un polpo si genera una particolarissima forma di riconoscimento in grado di rimettere in discussione tutte le qualificazioni etologiche che lo definiscono come cefalopode invertebrato. In particolar modo la capacità di riconoscere una serie di oggetti per continuare a servirsene nel corso del tempo è una facoltà che la scienza etologica associa ad alcuni animali ritenuti sociali o monogami, ma il polpo è un “animale” con una vita sessuale disordinata e trascorre gran parte della sua vita in solitudine. L'epifania del film si sviluppa proprio nei momenti in cui il polpo si lascia andare al gioco dei ruoli e delle situazioni, come se volesse dimostrare a quell'individuo appartenente alla specie del sapiens la gioia che si prova a essere un invertebrato con dei tentacoli al posto del sistema nervoso e con centinaia di ventose che fungono da cervello. I confini di specie cominciano a dissolversi quando il polpo prende confidenza con le protesi tecnologiche, mettendosi a disposizione dell'obiettivo di Foster o, viceversa, quando il filmmaker si trasforma in tana e rifugio per il polpo. Il corpo di Foster, anche grazie alla “magia” del cinema e all'uso scaltro dei suoi artifici come il montaggio, le ellissi o il campo -controcampo – ricordiamo che il sub non fa uso di bombole di ossigeno nelle immersioni - diventa il corpo del polpo e come quello è ovunque e allo stesso tempo in nessun luogo. Vale la pena di sottolineare come le uniche parti percepibili del corpo di un polpo dall'occhio umano, soprattutto in un ambiente come quello sottomarino in cui la visibilità è sempre problematica e comunque mediata da superfici riflettenti, sono la testa e gli occhi; e quando nuota con il particolare sistema di propulsione a getto mentre schizza via improvvisamente oppure quando “cammina” sul fondo marino tenendosi in equilibrio sui tentacoli come fosse un bipede, è difficilissimo distinguerne le singole parti, come suggerisce il film in alcune delle sequenze più suggestive.

L'antinomia del film è la stessa che determina la contraddizione alla base della macchina cinema: il tentativo di superare la radicale separazione tra l'uomo e l'animale facendo ricorso alle tecnologie che raccontano questa differenza percepita come unicità della specie sapiens. La tesi di Mark Rowlands per cui l'uomo è un animale da storie forse potrebbe chiarire l'irrisolta questione che determina l'antropocentrismo del dispositivo cinematografico: essendo l'uomo un animale mediatico e cioè un essere vivente tecnico che sviluppa il piano del sensibile in maniera estetica, l'animalità diventa sempre più il campo del contendere mediatico.

My octopus teacher riflette proprio la contraddizione stessa del cinema che, cercando disperatamente di fuggire dal principio di realtà che lo inscriverebbe nella dimensione adulta dell'arte, trova la soluzione nella sospensione della credulità. Come dice Rowlands infatti l'uomo è quell'animale che crede, che esprime la sua sensibilità animale credendo al racconto di sé e del mondo. Per descrivere l'insostenibile incontro tra un essere umano e un essere alieno c'è bisogno di una storia in grado di narrare le peripezie di questa speciale avventura amorosa. I pericoli che il polpo deve affrontare per sopravvivere – gli attacchi degli squali pigiama, la lotta con alcuni individui della sua stessa specie, l'accoppiamento (il polpo protagonista è una femmina) e la conseguente gestazione della gravidanza – lo avvicinano sempre più al momento culminante del film – la morte. Il climax si struttura intorno ai momenti apicali come tappe che conducono all'inesorabile momento della dipartita del polpo. Questa malizia narrativa, esplicitata fin dal titolo disneyano, Il mio amico in fondo al mare, con cui è stato distribuito sulla piattaforma di Netflix Italia e che ha contribuito al successo del film e al suo riscontro mediatico, viene costantemente tenuta a bada dal dovere professionale di Foster. Il documentarista infatti, per non interferire con l'ambiente biotico costituito dalla foresta di alghe, frena i suoi impulsi umani per cercare di strappare il polpo dalle fauci del pescecane, tenendo fede in questo modo al suo ethos professionale. Ma non può non chiedersi se anche un polpo sogna, e se sogna, cosa sogna. Il polpo potrebbe avere un'esperienza di sé piuttosto complessa: essendo il suo cervello disposto sull'intera superficie del corpo, egli potrebbe percepirsi come sé e, contemporaneamente, come altro da sé. E, in fondo, anche lui credere al racconto di un sé che racconta la storia di un polpo che insegna a un uomo come è bello vivere e sognare in una foresta di kelp.

 


COLLASSO ANALITICO

Nella prima stanza che accoglie la mostra Collasso Analitico un muro color panna ospita la scritta: “Al di là della tecnica, dell’immagine, si è attraversati da utopie. Possa la lingua essere la nostra casa”. Sulla seconda parte di questa frase ho riflettuto molto, prima ancora di addentrarmi nel percorso espositivo. Ho provato a fare un gioco, cioè invertire la posizione delle parole “lingua” e “casa”. A sostituire “casa” con “identità”, “persona”,“io”, “noi”, “storia”, “memoria”. Eppure casa sembrava calzare perfettamente, capace di racchiudere i plurimi tracciati di un’espressione così semplice e quotidiana. Mi sono concentrata su lingua: anche lì vi erano più o meno le stesse parole. Nonostante entrambe facessero riferimento a luoghi fisici ben precisi, non riuscivo a dare loro un esatta ubicazione. La loro raffigurazione divenne sempre meno statica ed effimera e con quei dubbi ho iniziato a scoprire le vite di Micol Roubini e Giulia Bruno, così come le loro opere.

Attualmente in corso presso Casa Testori (fino al 5 giugno), Collasso Analitico è «un percorso in fieri e un’indagine a porte aperte, più che una mostra» - così come la definisce la sua curatrice Daniela Persico - che racchiude i lavori e le ricerche delle due artiste sopra citate, entrambe nate a Milano e successivamente condotte altrove dal loro passato e dal loro destino.

Il progetto di Micol Roubini parte da una fotografia scattata nel 1919 che ha per oggetto la casa natale del nonno materno, nel piccolo paesino ucraino di Jamna: Roubini si è servita di fotografie, agende, fogli, documenti, ritagli per riempire e colmare il vuoto materiale che ha comportato la partenza della sua famiglia, quando nel 1957 lasciò l’Unione Sovietica per l’Italia: 23.000 grammi è il peso degli oggetti che non arrivarono mai a destinazione. Tra questi anche una macchina da cucire, una macchina da scrivere, un servizio da tavola, una bicicletta. Il loro peso corrisponde a quello di 1287 fogli di carta velina, disposti in una delle sale, a formare un cuboide di carta; allo stesso modo, l'inconsistenza degli oggetti si accentua in rapporto al loro significante, rimodellato e travisato su errori di trascrizione e traduzione (tra russo, polacco, italiano), a sottolineare l’idea dell’artista in merito all’incomunicabilità del linguaggio. Gli oggetti rimasti e sopravvissuti al viaggio - libri, bicchieri, fotografie - vengono ripresi frontalmente dall’artista nel video Veglia, come se venissero interrogati, unici custodi privi di parola capaci di serbare i dettagli delle vite passate davanti a loro. Ai silenzi di Veglia si oppongono le voci di Appunti per un film ucraino (riprese che confluiranno nella realizzazione del lungometraggio La strada delle montagne): il percorso tracciato da Roubini si chiude circolarmente nel luogo dell’inizio - della partenza - con il ritorno a Jamna, in una raccolta di testimonianze spesso taciute della seconda Guerra Mondiale e degli anni dell’Unione Sovietica. Ritorna la parola con la sua carica veritiera, anch’essa vittima dell’usura del tempo.

La ricerca sul linguaggio di Giulia Bruno ha invece più diramazioni e sembra essere un continuum - storico - di quella iniziata da Roubini: guarda anch'essa al passato ma da una prospettiva collettiva, ponendosi come osservatrice a media distanza. La forma del linguaggio e la ricerca di un suo standard diventano l’oggetto di un’indagine che guarda al presente e ai media contemporanei: la lingua non è più solo intesa come un agglomerato di lettere e fonemi ma di immagini, fotografiche o video che siano. Il viaggio di Bruno è un itinerario quasi mondiale: in Artificial Act - Research for a Film una serie di studiosi si interrogano sul ruolo e l’eredità dell'Esperanto, a partire dall’utilizzo radicale che ne fece la Fiat durante gli anni ‘50 e ‘60 per tradurre i manuali tecnici e diffonderli oltre i confini - un linguaggio utilizzato a fini economici - quando ancora l’inglese era poco noto. Seguono le fotografie e le testimonianze ibride di comunità tra Cina, Indonesia, Brasile, Corea del Sud, che in seguito alle colonizzazioni degli anni ‘70 si sono trovate a ricostruire una propria identità interconnessa ed artificiale, fatta di composite radici, così com’è l'Esperanto. Al linguaggio come forma socioculturale, Bruno porta attenzione al linguaggio come elemento sonoro, nel quale la voce umana intesa come performance vocale, diventa l’oggetto per una ricerca non solo musicologica ma soprattutto etnografica.

Collasso Analitico spalanca mille finestre e riflessioni che escono dalle mura di Casa Testori, in uno sguardo composito - a tratti confuso, così come lo è la realtà - sul secolo scorso, servendosi appunto di molteplici linguaggi espressivi tra quello scritto, sonoro, fotografico e multimediale. Le riflessioni unite in questa mostra vengono colte in un preciso momento spartiacque, dove guardare i meccanismi e l’eredità del passato diventa necessario per non dimenticare ed affrontare le trasformazioni di un presente in cui il rischio di una standardizzazione e manipolazione del linguaggio diviene sempre meno un’utopia. Un linguaggio, che si stacca sempre più dalla parola spontanea, dal suo supporto, a favore di una smaterializzazione accelerata dal diffondersi non solo delle tecnologie digitali ma anche delle leggi algoritmiche dei motori di ricerca, le quali ci impongono una semplificazione estrema della lingua, del modo di comunicare e quindi di pensare.

Se le fotografie stampate e gli oggetti conservati da Roubini sono depositi di una memoria capace di sopravvivere ad un intero secolo - alle guerre, alle migrazioni - e costituiscono anch’esse un alfabeto materico, la babele di immagini tradotte in pixel, modificate, falsate ed interpolate a cui siamo oggi sottoposti, non riusciranno mai a svolgere il compito per il quale sono state realizzate: ricordare, trattenere, conoscere (la Storia e gli Altri). Torno alla citazione d’apertura della mostra e la rileggo quasi come mantra e obiettivo da perseguire: possa la lingua essere la nostra casa, anche per il futuro.