Yes, of course I remember, how could I forget? How you feel?

And though you were my first time, a new feel […]

We’ll go down this road

‘til it turns from color to black and white.

Frank Ocean, Thinkin bout you

 

«Boys don’t cry», cantava Robert Smith nel 1979, cercando di mantenere una compostezza vocale puntualmente insidiata da un giro di accordi che preannunciava il tracollo. Con Moonlight, suo secondo lungometraggio, Barry Jenkins ha lavorato su questa equivocità, innalzata a vero e proprio teorema da dimostrare nel corso dei tre atti che scandiscono altrettante fasi della vita – infanzia, adolescenza, età adulta – di Little/Chiron/Black, ragazzo nero con una situazione familiare disastrosa alle spalle e vittima di bullismo a scuola.

La sua vita è immersa nei silenzi di una epoché forzata: intorno all’incapacità iniziale di comprendere i propri impulsi sessuali, Chiron tesse la rete entro la quale avvilupparsi e, all’occasione, auto-fagocitarsi. Così, mentre il mondo circostante è pronto a etichettarlo come omosessuale – sebbene tramite indizi minimi –, Chiron conduce un’esistenza da straniero all’interno della propria comunità gangsta-machista e, soprattutto, a se stesso. La laconicità che lo caratterizza è espressione di un rimosso, affiorante ma risospinto, lambito in tre momenti, sottolineati in maniera fin troppo didascalica dalla ricorsività del simbolismo acquatico. Le frontiere psicologiche, infatti, vacillano per la prima volta quando Juan, uno spacciatore che si prende cura di Chiron fino a occupare il posto del padre mai conosciuto, gli insegna a nuotare.

Come afferma Bachelard, la presenza (o la prossimità) dell’acqua costituisce la condizione più adatta a mostrare l’effetto “combinante” – al contempo disgregante e poietico – dovuto alla sua conformazione che permette di assimilare materie in natura tra loro opposte. La terra, invece, al suo massimo grado è luogo degli antagonismi, terrain vague dove le relazioni, instauratesi in prossimità dell’acqua, sono messe a dura prova o cambiano persino di segno: alla lezione di vita impartitagli da Juan-Padre («Sei tu che devi decidere chi sarai, non permettere mai agli altri di decidere per te») si passa allo Juan-Spacciatore ingabbiato in un sistema senza via di scampo; all’idillio sulla sabbia, in cui liquido e solido si impastano plasmando un “organo energico”, si contrappone il pestaggio che, di fatto, incrina l’amicizia romantica tra Chiron e Kevin.

Tuttavia, anziché contribuire alla realizzazione di un film distante dagli standard del cinema hollywoodiano, la ricerca ossessiva del cromatismo funzionale alla diegesi, il ricorso a movimenti di macchina disorientanti, l’ellitticità del racconto e la pervasività dello sguardo frammentario – forse ereditato dalla pièce In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraney, sulla quale si è basato il regista per la stesura della sceneggiatura –, dichiarano l’aderenza a modelli cinematografici ingombranti che inficiano il risultato dell’operazione.

Si considerino, in tal senso, i continui rimandi all’universo visuale di Wong Kar-wai e Christopher Doyle tramite il rovesciamento della gerarchia visiva nonché l’impiego di ralenti e surcadrage che dovrebbero rendere tangibile la solitudine dei personaggi. Al contrario, tradendo una certa acerbità stilistica, il citazionismo è privo di ricontestualizzazione – quindi anodino[1] – e pare più in sintonia con la sensibilità divorante del Dolan di J’ai tué ma mère (2009).

Il romanzo di formazione procede secondo tappe ingessate che si enucleano non solo attraverso la tripartizione, ma anche nell’ulteriore riduzione in segmenti narrativi minimi abitati da personaggi evanescenti. Come in un dramma liturgico medievale, le dramatis personae sembrano allegorie di concetti astratti (si pensi a Teresa), monoliti inamovibili fintantoché non abbia luogo la rinuncia alla personificazione precedente: i protagonisti albergano in corpi differenti affinché il loro ruolo possa subire modifiche infinitesimali, pena la scomparsa degli altri personaggi.

La crisi della mascolinità, chiamata in causa in alcune analisi, può riferirsi allora soltanto a una concezione essenzialista e dualista delle identità di genere, per di più ripulita rispetto a quella problematizzata, ad esempio, in un film all’apparenza pecoreccio come Tangerine (2015). In quali termini raffrontare la solitudine inespugnabile di Chiron con quella ben più complessa – persino drammatica – del tassista armeno nel film sopraccitato?

Le identità sono costruite per presunte pertinenze di genere attraverso le quali aggrapparsi a una morale universalistica piuttosto che accostarsi alla complessità del reale. Così, viene meno il mélange di maschile/femminile – proposto, ad esempio, in Happy Together (1997), cui Jenkins fa spesso riferimento – che permetterebbe di eludere facili riduzionismi sociologici e di considerare la relazione sentimentale come un luogo, forse utopico ma comunque necessario, dove le identità si confondono e si rivoltano. Come giudicare un film incentrato sull’incomunicabilità consumantesi sul piano verbale ma che trova risolutamente un’espressione somatica dopo le vette conquistate in questa direzione da un Téchiné? Come potrebbe reggere il confronto con i teen movie “d’autore” nipponici degli anni Novanta?

Un passo avanti e due indietro.

[1] Andando oltre lo schema compositivo, lo stesso “motivo” del jukebox, che in Angeli perduti (1995) diventa un espediente narrativo a tutti gli effetti, in questa sede appare notevolmente depotenziato.