Dopo aver raccontato la figura di Neruda, calandola in un eterno inseguimento senza ritorno, Pablo Larraín si accosta a quella di Jackie Kennedy e alla storia del Novecento americano, nel suo primo film prodotto e distribuito dagli Stati Uniti. Per questo secondo biopic consecutivo il regista cileno ha tuttavia deciso di appigliarsi più solidamente alla realtà, prendendo le mosse non tanto dalla vicenda della signora Kennedy, quanto dal repertorio che l’ha restituita alla memoria collettiva. Come se le immagini d’archivio provenienti da un’epoca diversa dalla nostra, volatile e digitale, avessero la capacità di costituire un dato concreto in una vicenda che ormai è offuscata dalla patina di leggenda. Così, tra tutte le fonti disponibili e reiterate dai mass media e dal mondo dell’arte, Larraín ha selezionato quello che ritiene il documento fondativo della presidenza Kennedy, ovvero il filmato in cui Jackie apre per la prima volta le porte della Casa Bianca al mondo. La più giovane first lady americana – in carica a soli 31 anni – ha infatti portato a termine durante il mandato del marito un progetto all’apparenza superfluo, ma in realtà strategico per la politica presidenziale: il restauro della Casa Bianca. Per mostrare i risultati del suo lavoro al Paese, Jackie ha fatto da guida a un tour televisivo dell’edificio, trasmesso dalla CBS. I consensi ricevuti dal programma le sono valsi un Emmy Award e hanno contribuito a far sentire John F. Kennedy – e il potere – più vicini ai cittadini. L’obiettivo della first lady era infatti quello di museificare la struttura per creare una memoria americana, e dunque una maggior coesione delle varie anime degli Stati Uniti.

Ancora una volta, Larraín adotta una maniera di decostruire la Storia opposta a quella introdotta da Quentin Tarantino con Bastardi senza gloria e Django Unchained. Quest’ultimo ha scardinato ormai da anni l’idea di un cinema che si adatti ad accogliere la cronaca ufficiale, insistendo invece su una narrazione storica che si modella sulle forme e i codici del cinema di genere. Da qui è nata una riscrittura del passato in cui i ruoli si scambiano, e coloro che sono stati considerati vittime dei grandi eventi sono stati riproposti come eroi attivi, quando non vendicativi. Al contrario, Larraín si accosta alla storia del proprio Paese, e ora a quella statunitense, nella consapevolezza che nemmeno il cinema, pur nel suo commovente slancio, sia in grado di contenere la complessità del passato e di attribuire ruoli e funzioni ben definite ai suoi protagonisti. Da qui l’idea che le personalità della Storia siano anzitutto delle figure in lotta contro se stesse, all’inseguimento di un’identità frantumata in mille rivoli, incapaci di scindere la loro idea di sé dalla propria immagine pubblica.

Lo sdoppiamento vissuto da questi personaggi viene replicato dagli espedienti formali dei film, sempre oscillanti tra un recupero di strategie del passato e il desiderio di costruire un nuovo linguaggio in cui vi sia una sintesi tra ieri e oggi. Così gli stranianti chroma key usati in Neruda vengono qui sostituiti dalle immagini della trasmissione televisiva in bianco e nero, e dai filmati di repertorio sulle giornate in cui l’America ha perso la propria innocenza – si vedano le persone reali riflesse sul finestrino della macchina che porta Jackie al funerale del marito: un espediente peraltro già sperimentato con successo in No – I giorni dell’arcobaleno.

Ma è soprattutto il programma televisivo – che viene sia riprodotto da Larraín che usato in alcune sequenze originali – a fornire l’immagine chiave del film: quella di una ibseniana casa di bambola entro cui Jackie si muove solitaria, accumulando, ordinando, sfoggiando oggetti a favore di camera. Di conseguenza, Jackie è quasi interamente ambientato in interni, con una messa in scena che si fa ancor più soffocante nel momento in cui stringe sui primi piani di Natalie Portman, cercando di catturare la natura ossessiva del personaggio. Che incarna parossisticamente la divisione dei ruoli famigliari degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta: Jackie cura la Casa per eccellenza, mentre John, fuori, si occupa del Mondo. Tuttavia, Larraín intende partire da una storia di reclusione domestica del femminile per indagare come Jackie, in realtà, sia riuscita ad appropriarsi di questa dimensione sino a diventare la “padrona di casa”, nonché parte attiva nel progetto politico del marito. Nel suo recuperare cimeli dispersi per il mondo, come le sedute da salotto di Lincoln, portate da Londra, Jackie è tutt’altro che una figura subalterna. Al contrario, è colei che prima di tutti gli altri ha compreso e introiettato l’essenza effimera del grande racconto storico. Colei che ha capito che, se gli Stati Uniti sono un Paese senza un passato – che non sia prossimo – allora è possibile edificare una mitologia anche a partire dal presente, utilizzando cimeli posticci e improvvisando grandiosi cerimoniali. Il mito di Camelot, il musical preferito di John Kennedy, che riecheggia tramite la voce di Richard Burton nelle stanze deserte, non è mai stato così vicino: solo lavorando sulla memoria mediatica si costruiscono le leggende.