Nei Frammenti di un discorso amoroso Barthes notava: “ciò che oggi rende osceno l’amore è [la] sua sentimentalità”, al punto da rendere la stessa parola “amore” inutilizzabile se non nella forma ironica di “ammore” (“amur” in francese) o, possiamo aggiungere noi, nella sua traduzione in inglese “love”. Non sembra quindi casuale che, dopo i focus del TFFDoc dedicati a Democrazia e Mediterraneo, la sezione del festival torinese curata da Davide Oberto abbia presentato nell’edizione 2016 un focus tematico di proiezioni e incontri denominato, per l’appunto, Love, come una sorta di upgrade, di alt(r)o grado, dell’“amore” in chiave artistica e politica. Nel programma, sono state presentate sette opere recenti accompagnate (precedute) dal cortometraggio del 1965 Les Amours de la pieuvre di Jean Painlevé e Geneviève Hamon, dedicato alle capacità seduttive della “Signora degli Abbracci Conturbanti”, vale a dire l’octopus vulgaris, il comune polpo; da cui si è dipartita una catena ideale di rimandi incrociati tra tutti i film della selezione.

Infatti, il corto rinvia perfettamente a un altro film del focus, il video-ritratto Donna Haraway: Story Telling for Earthly Survival di Fabrizio Terranova, in cui la filosofa e femminista autrice del Manifesto Cyborg appare circondata di mirabili spire di meduse marine animate digitalmente e da peluche con le fattezze di piovra: per Haraway ogni desiderio è infatti tentacolare e plurale, come ogni forma di pensiero interconnesso e fecondo. La donna-medusa è inoltre una figura già usata dalle femministe in chiave decostruzionista dell’identità di genere e applicata da Haraway al suo campo di interesse tecno-fanta-scientifico. Terranova ci mostra innanzi tutto la casa che ha edificato nei boschi con alcuni amici e dove vive, il suo quotidiano scardinare le categorie binarie attraverso cui siamo abituati a dire le persone e a imbrigliare i desideri (uomo, donna, eterosessuale, omosessuale), in primis le strutture patriarcali e la coppia etero-riproduttiva, che organizzano le relazioni affettive ed economiche dominanti. Il film le dà la parola non per affabularci con complicati discorsi teorici e prescrizioni bensì per raccontarci in modo semplice e concreto anche la sua esistenza affettiva alternativa, come dev’essere radicalmente alternativo al capitalismo ogni discorso critico (e va senz’altro a segno la sua stoccata contro gli intellettuali sedicenti anti-capitalisti che non sanno immaginare nessun orizzonte altro).

Dai tentacoli alle radici cascanti che si attorcigliano dal quinto al terzo piano del palazzo dove vive da più di vent’anni, nel Bairro das Colónias di Lisbona, l’italiana Luciana Fina, autrice di Terceiro Andar. Nel film (che ha assunto anche la forma della video-installazione) incontriamo due donne, madre e figlia, Fatumata e Aissato, originarie della Guinea Bissau. La regista costruisce uno spazio audio-visivo domestico, in cui risuonano il tonfo ritmato del mortaio di Fatumata che prepara la cena al terzo piano, la versione radiofonica di Siamo donne (1953) trasmessa da Radiotre e ascoltata dall’autrice al quinto, gli scambi in lingua Fula e portoghese tra madre e figlia, intente a riflettere sulla scrittura di una lettera d’amore con cui Aissato vorrebbe rispondere a quella ricevuta da un ragazzo. Una riflessione condivisa su come il linguaggio, fra tradizione e traduzione, contribuisca all’educazione sentimentale di una giovane donna.

A quest’ultimo è stato associato nelle proiezioni torinesi il corto Diario Blu(e) di Titta Cosetta Raccagni: attraverso il diario di una liceale nell’Italia degli anni Novanta, tra compiti in classe, partite dell’Inter e crisi della sinistra, percorriamo un tratto di quella tortuosa strada che conduce alla scoperta di sé. Sullo schermo nero si muovono silhouettes e parole in bianco, i tratti tristi o gioiosi di un giornale intimo illustrato. La protagonista racconta il farsi e il disfarsi della sua amicizia con Francesca, di cui a un certo punto si scopre innamorata. L’amore tra due ragazze fatica però a dire il proprio nome e intanto il tempo passa, arrivano i maschi, la verginità se ne va, ma infine i tentativi di essere “normali” falliscono: “Della mia relazione con lui mi rimane: il seno grosso – bastardo – una maglia, un braccialetto, una camicia, una cassetta. Forse potevo muovermi prima a cercare la mia principessa”. Il futuro è incerto ma nuovi varchi ormai si sono schiusi.

Un’altra modalità di dare veste cinematografica alla parola è quella sperimentata in Suitcase of Love and Shame, film del 2013 di Jane Gillooly. L’autrice riesce a preservare la capacità evocativa di un materiale audio registrato negli anni Sessanta e qui montato sulle immagini dei nastri che scorrono nel magnetofono, di vecchie diapositive di paesaggi, di bobine in super8 fuori fuoco proiettate su una parete. La provenienza del materiale, assemblato in modo volutamente non cronologico, è alquanto romanzesca: si tratta di una valigia trovata per caso in vendita su eBay contenente decine di ore di registrazioni scambiatesi tra due amanti che vivevano lontani; lui era un uomo sposato ed è stata lei a conservare per anni (almeno così si evince) in una valigia questi nastri che oggi raccontano un pezzo di storia dei codici e dei canali di comunicazione erotico-sentimentali contemporanei eppure già vintage.

Non molti anni prima, nella Vienna dell’immediato dopoguerra, si erano incontrati Ingeborg Bachmann e Paul Celan il cui epistolario è la materia pulsante di Die Geträumten della viennese Ruth Beckerman dove due giovani attori interpretano, registrandole in uno studio radiofonico, le lettere con cui i due poeti corrisposero per anni, trascorsi quasi interamente lontani l’uno dall’altra: lui ebreo rumeno segnato dalla tragedia dell’Olocausto, sposatosi poi a Parigi, dove si suiciderà buttandosi nella Senna nel 1970; lei austriaca giramondo che rinuncierà alla vita con la morte di lui (lo scrisse in Malina: “La mia vita finisce qui, perché lui è annegato nel fiume durante la deportazione. Era la mia vita. Io l’ho amato più della mia vita”) e spirerà a Roma nel 1973 ustionata dalle fiamme innescate da una sua sigaretta.

Se Ruth Beckerman sceglie di lasciare spazio alle parole di Bachmann e Celan filmando unicamente i volti e i corpi dei loro due interpreti, a cui regala anche qualche intermezzo fuori della lettura, We Make Couples del teorico e cineasta sperimentale canadese Mike Hoolboom parte dalle voci di due conoscenti per riflettere sulla portata rivoluzionaria della coppia. Con un approccio che discende direttamente dal materialismo storico marxiano, il presupposto di Holbloom è che l’essere umano è una macchina al lavoro che non produce solo beni materiali ma anche relazioni. Il suo film si domanda quindi che tipo di relazioni amorose nascano nelle condizioni di produzione attuali e se l’amore possa costituire una forma di resistenza di fronte alla smaterializzazione e al dissolvimento individualistico di tutti i legami affettivi: “fare coppia” (e che coppia?) può ancora permetterci di coltivare forme di amore e di responsabilità nei confronti degli altri e del mondo che ci circonda? Sul piano visivo il film fa i conti con l’impasto di reale (home movies) e immaginario (anche pubblicitario) di cui si nutrono le relazioni e articolando cinema, politica e psicoanalisi, pone l’accento su un dato curioso: cinema e psicoanalisi nascono all’incirca nella stessa epoca ed entrambe le pratiche studiano il concetto di “proiezione”. Quella di Holbloom è dunque un’indagine, che procede per associazione libera, sull’immaginario amoroso – che molto deve al cinema – tra dimensione individuale, di coppia e collettiva.

Tutte dimensioni che si intersecano anche ne Les Vies de Thérèse di Sébastien Lifshitz, ritratto della vita e della morte di una donna che ha avuto la straordinaria capacità di tenere insieme senza mai rinnegarle tutte le proprie esperienze. Sposa giovane e vergine, madre di quattro figli, divorziata, lesbica, attivista per i diritti delle donne. Thérèse era già apparsa in un precedente film di Lifshitz, Les invisibles, racconto corale di una generazione di anziani omosessuali ed era stata protagonista di Rebel Menopause di Adele Tulli che nel 2014 aveva ricevuto una menzione speciale al Gay and Lesbian Film Festival di Torino. Les vies de Thérèse nasce dall’esigenza della stessa protagonista, malata di cancro, di raccontarsi negli ultimi istanti della propria vita per usare il proprio corpo e la propria morte in modo politico, cioè rompendo il tabù che rende invisibili i corpi anziani, malati e morenti. Vediamo dunque una donna circondata dai suoi affetti, dai quattro figli che la curano, l’accudiscono, raccontano i loro rispettivi rapporti con una madre che da donna di casa si trasformò in militante sessantottina che amava le donne. Uno sguardo amoroso su ciò che significa l’imperitura e sempre valida idea secondo cui il personale è politico.

Il TFFDoc Love si è così proposto come uno spazio in cui parlare di sentimenti, anche in chiave impegnata e cioè calando la dimensione intima nel contesto sociale e politico che la determina, la condiziona, la fa esplodere. Una visione politica dell’amore, ma anche una visione amorosa della politica, una politica della visione amorosa, un amore per la politica della visione e via combinando.