Non c’è autore più adeguato di Arnaud Desplechin per inaugurare un festival che si vuole ancora “cinefilo”, benché cuore pulsante del mercato internazionale. E, in effetti, Les fantômes d’Ismaël rappresenta in pieno la sfida al centro di ogni opera del regista francese, uno dei pochi autori contemporanei a investire il cinema di un desiderio assoluto, in cui coesistono vita, arte e politica come in una grande narrazione ottocentesca. Non è un caso infatti che Desplechin, fin dal suo primo film, metta in scena coppie di fratelli dai rimandi dostoievskiani, rubi i nomi dei personaggi da Joyce e si imbarchi ogni volta in esplorazioni di campi della conoscenza diversi (la politica de La sentinelle, l’etnografia di Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle), l’arte in questo ultimo film) senza mai alcuna pretesa di approdare a una forma cristallizzata d’opera totale, bensì lasciando un margine alla vita che irrompe e distrugge ogni teorizzazione e sistematizzazione di un sapere sul mondo e su se stessi.

A poche ore dalla visione, infatti, riesce difficile ricordare l’inizio di Les fantômes d’Ismaël: non per la sua inconsistenza, ma poiché il plot può essere visto come una continuazione o, meglio, una variazione del grande film che da sempre il regista continua ad ampliare. Chi è Ismaël Dedalus, che prende il nome e le sembianze dal protagonista di Roi et Reines? E chi è Ivan, suo fratello e protagonista del film che sta scrivendo, dichiaratamente ispirato a quell’indimenticabile figura secondaria di Comment je me suis disputé…? E ancora Carlotta, amata che ritorna dalla morte, e nella sua “altra vita” assume il nome di Esther, come tutte le donne che ricordano ai suoi protagonisti l’urgenza della vita? In un continuo gioco di rimandi, il cinefilo si divertirà a rintracciare in Ismaël Dedalus proprio il possibile autore di quel film che segnò gli anni Novanta, e quindi il personaggio forse più vicino alla figura di Desplechin, come lui regista, e incapace di mettere fine alle proprie relazioni, così come alle sue creazioni.

Qui non è tanto Ismaël a essere in lotta con se stesso (anche se un fantasma di questa lotta resta negli incubi che non lo fanno dormire e gli fanno desiderare una vita senza fasi di riposo) ma il film stesso a divenire un campo di battaglia attraversato da spinte opposte che né il protagonista, né l’autore, né forse l’uomo contemporaneo, riescono più a far coesistere nelle proprie frammentarie esistenze. Se le immagini primarie di Pollock e dei suoi traumi si dissolvono in schizzi sulla tela (come si dichiara in un dialogo del film nel film), così Ismaël è incapace di conciliare la sua essenza più profonda (la ricerca di Esther, moglie ventenne scomparsa improvvisamente) con un rapporto amoroso adulto, problematica che trasferisce nel suo film di spionaggio in cui lo scontro – che dovrebbe investire la sfera geopolitica – si riduce a un complotto più individuale che collettivo. Da uomo postmoderno qual è, Ismaël può solo desiderare di offrire una visione del mondo unitaria, come hanno saputo fare gli artisti del ‘400 con l’invenzione della prospettiva, per poi ammettere in un delirio ossessivo che persino dietro a questa “nuova visione del mondo” riusciranno a resistere (e dare vita a due variazioni) le culture opposte del cattolico Beato Angelico e del protestante Jan Van Eyck. E infine, mentre intesse una fitta ragnatela di linee guida nella soffitta della sua infanzia, finirà per dover deporre la propria centralità di narratore e lasciare che a tirare le “momentanee” conclusioni sia Charlotte Gainsbourg, compagna di una maturità affettiva che sembra però anche sancire un affievolimento della sua creatività, come anche le sue manie di controllo. Il cinema, come la sua Esther – figlia non a caso di un maestro che è divenuto padre putativo di Ismaël e non ha mai smesso di credere ai fantasmi – si è volatilizzato, o ha trovato la parola fine. Ma una fine che non durerà a lungo. [Daniela Persico]