La vita non è né bella né brutta.

Con queste parole termina l’ultimo lungometraggio di Stéphane Brizé, tratto dall’esordio nel romanzo (1883) di Guy de Maupassant, ed è proprio da questo assunto che si potrebbe dipanare la mappa sottotestuale dell’intero film. Il centro dell’opera, che mette in scena la vita di Jeanne, nobildonna francese costretta a sopportare prima i tradimenti del marito e poi le irresponsabilità del figlio, non è altro che una grande e stratificata riflessione sul senso del tempo, e sul cambiamento del punto di vista che ne consegue. Ancora una volta il cinema impiega le proprie armi per scomporre la visione lineare di una storia, pur mantenendo in questo caso un’apparente adesione tra fabula e intreccio, rispettando quindi il succedersi cronologico degli eventi. Il cambio di marcia va individuato nell’uso che Brizé impone al montaggio, creando una vera e propria scissione tra immagine e racconto, spesso inserendo inconsuete parentesi visive all’interno dell’arco drammaturgico, senza identificarle come flashback o flash-forward, ma semplicemente mostrando l’anima del film e della sua protagonista: accade quando la troviamo nel mezzo di una tempesta o insieme ai suoi cari, contro l’altare di momenti ora tristi ora felici, mentre tutt’intorno un fato inteso come inarrestabile forza della natura, né positiva né negativa, compie il suo decorso sull’esistenza dell’essere umano. Nonostante il film mantenga una fedeltà letteraria piuttosto rigorosa al romanzo (la frase finale del film è la stessa del libro), Brizé predilige dunque il punto di vista di Jeanne, che viaggia spesso tra la realtà effettiva e le proprie sensazioni, i propri ricordi. Questa soggettiva di intenti rafforza il senso dell’opera: lo sguardo inevitabilmente parziale della protagonista è quello che interessa al regista, perché ogni vita è sempre data dal punto di vista totalizzante di chi la affronta in prima persona.

Da una parte dunque il cinema come specchio dell’esistenza, in cui l’immagine assume bazinianamente il senso di fotografia cui sono aggiunti movimento e durata; dall’altro, cinema come indagine degli anfratti più soggettivi, senza spiegazioni, fondato semplicemente sulla scomposizione della memoria in un montaggio trasversale. Alla luce di questa duplice tensione, Una vita sembrerebbe contrapporsi nettamente ai precedenti percorsi di Brizé, da sempre attento ad affrontare i dilemmi etici della contemporaneità con un approccio concreto e diretto (pensiamo al tema dell’eutanasia in Quelques heures de printemps, o alla crisi economica, sociale e lavorativa nel più recente La legge del mercato): con quest’ultimo film, il regista decide di virare verso un’opera che utilizzi la sua intensità emotiva per riflettere sul fondamentale scarto tra arte e vita, e al contempo sul loro inscindibile rapporto, lavorando non poco ad una radicale stratificazione del linguaggio, senza rinunciare completamente a una continuità con i lavori pregressi. L’uso massiccio della camera a mano (vicino al senso costruttivo della “cinepresa mobile” enunciato da Deleuze) si concentra soprattutto sui primi piani dei protagonisti, seguendoli da vicino nei loro spostamenti e prediligendo lunghi take senza stacchi; poi il profilo come metro di osservazione privilegiata dei personaggi (scelta autoriale di ampissimo uso, dal cinema di Hitchcock ai graphic novel di Guy Delisle), che trasmette un senso di intrusione dello spettatore nella loro vita; infine il formato claustrofobico a 1.33:1. Oltre alla forma, anche il contenuto conferma la linea autoriale di Brizé, tratteggiando figure completamente schiacciate dalla realtà che li circonda, incapaci di venirne a capo nonostante tutti gli sforzi possibili.

È anche grazie a questa coerenza tematica e stilistica che il regista riesce a distaccarsi dall’immobilismo di genere del film in costume, inserendosi, involontariamente o meno, in un trittico ideale composto da altri due film di recente produzione, Lady Macbeth di William Oldroyd e Amore e inganni di Whit Stillman, dove messa in scena e scrittura tentano di destrutturare i canoni di un filone cinematografico che quasi sempre si è proposto di ricalcare fedelmente i romanzi da cui prendeva origine, ereditandone anche l’essenza spesso vetusta. Con Una vita Stéphane Brizé riesce a rafforzare la propria identità all’interno del cinema francese contemporaneo, piegando il proprio cinema a una visione insieme attualizzante e fuori da ogni tempo.