Ci sono film la cui progettazione potrebbe essere più rilevante della loro realizzazione, opere di passaggio sulle quali gli autori testano la propria capacità di restare fedeli alla loro poetica aprendosi a dettami portati da altri. La nuit où j’ai nagé – presentato nella sezione Orizzonti della 74ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – appartiene alla categoria, collocandosi tra quei progetti cinematografici che vivono dell’estemporaneità di un incontro, ma anche rilucono della sua bellezza imprevista. Nel 2014 il regista Damien Manivel vinse la sezione Cineasti del presente di Locarno Festival con Un jeune poète, opera prima tanto semplice nelle scelte stilistiche quanto efficace nel raccontare l’impalpabile tema dell’ispirazione artistica. Al festival incontrò l’autore giapponese Kihei Igarashi, anche lui in concorso con Hold Your Breath Like a Lover, e ne nacque un rapporto che è la base della realizzazione di La nuit où j’ai nagé, film dal budget ridottissimo, realizzato per il gusto di testare un’amicizia cinefila sul campo e di spingersi verso la condivisione di un’idea di cinema, delicata e consapevole come gli ideogrammi che compongono un haiku.

Diviso in tre parti dai titoli evocativi (Il disegno, Il mercato del pesce, Un lungo sonno), il film segue le vicende di Takara, un bimbo di cinque anni, che soffre per la mancanza del padre, al lavoro in un mercato del pesce tutto il giorno e buona parte della notte. Nessun gioco con la sorellina riesce a distogliere l’attenzione del bambino verso il vuoto creato dall’assenza della figura paterna, che riappare nei suoi disegni marini, nella vana volontà di aspettarlo alzato, di ricercarlo in un viaggio fuori casa che diventa una scoperta delle proprie capacità d’orientamento e caparbietà.

Girato senza bisogno della parola, e in un’economia cinematografica che si trasforma felicemente in scelta linguistica, La nuit où j’ai nagé è forse uno dei film che più ha raccolto pareri unanimi nella sezione Orizzonti, conciliando il fascino rarefatto proprio della graphic novel con la perfetta padronanza di un tempo filmico capace di spalancare la memoria di ciascuno. La storia di Takara, che abita in una zona montuosa a nord del Giappone, è anche un viaggio nella geografia di un luogo, ogni volta modificato dalla neve. L’elemento atmosferico diventa l’antagonista di una ricerca paterna, che è anche un viaggio alla scoperta della difficoltà dell’esistenza, dello sconforto dettato dallo smarrimento, della scoperta di nuovi rifugi e di un sonno che segna le nostre esistenze. Proprio l’abbraccio tra Takata addormentato e il padre, momento che si sottrae alla banalità nello scegliere di lasciare abbandonato al proprio riposo il bambino, riporta lo spettatore su un piano di lettura più sofisticato, in cui l’avventura infantile si confronta alla costante frustrazione di non poter invertire un tempo determinato da contingenze economiche o sociali, ma di potersi rifugiare soltanto in una dimensione altra, quella del sogno o del cinema.

Essenziale come Ozu, magico come Albert Lamorisse, La nuit où j’ai nagé è un’opera a due che si intrecciano perfettamente nella scelta di dare voce prima di tutto al potere primigenio del cinema: un bambino, la neve, un padre tenuto fuoricampo. E quando ricompare, l’incantesimo finisce.