Il film vincitore della Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes non è un’indagine sull’arte contemporanea, ma piuttosto una divertita digressione sulla comunicazione nel nostro tempo. Il regista Ruben Östlund, che da anni punta la macchina da presa sugli interstizi irrisolti della comprensione tra gli individui – comprensione non primariamente emotiva, ma squisitamente intellettuale, potremmo dire linguistica: a quali cose corrispondono le parole? – crea un magniloquente esercizio situazionista, tutto filtrato dalla finzione e addensato di risonanze musicali, che vorrebbe in qualche modo smascherare, senza farsene pienamente carico, le contraddizioni della socialità digitale.

Ci riesce, non ci riesce? Verrebbe da scrivere che trionfa nell’impresa di rendere inattaccabile il suo film, perché strategicamente fuori controllo. Anche per questo The Square, a fronte dei suoi innumerevoli difetti filmici, macina premi e continuerà a essere riconosciuto, almeno nei mesi a venire. Anche per questo il regista sale sui palcoscenici con le statuette in mano ma, saltando e urlando, ha tutta l’aria di non voler davvero rispondere di alcun ragionamento o posizionamento, preferendo la farsa al rigore, quasi sbandierando un disimpegno ideologico, persino nei discorsi di ringraziamento. Affermando, senza neppure aver bisogno di usare le parole, che oggi fare un film è solo una parte di un processo pubblico ben più articolato, che include il discorso sull’immagine accessoria che un’opera porta con sé, sull’inganno che ogni operazione incarna e sul doppio inganno di mostrarsene lucidamente consapevoli.

Nel tratteggiare insomma la vita e le quotidiane vicissitudini di un museo d’arte contemporanea svedese attraverso il punto di vista idealisticamente miope del suo direttore, coscienza bifronte divisa tra esercizio potere e ingenua sete di umanità, il film cavalca senza troppe remore la dialettica prima rivoluzionaria e poi cinica che il fare arte da sempre porta con sé, rivestendosi esso stesso di questa ambiguità liberatoria, riuscendo al massimo nel tentativo di illustrare perché, se Duchamp e con lui tanti altri maestri hanno saputo bucare l’immaginario demolendo le attese e i pregiudizi, oggi questo discorso cada inevitabilmente in mano al fagocitante fuori campo del marketing virale, della promozione a effetto, dei buffet che inaugurano le mostre, delle acritiche condivisioni su YouTube.

Di fronte ai suoi personaggi sapientemente incompiuti, che scivolano da una circostanza all’altra attaccandosi con le unghie al proprio ruolo e all’identità sociale che quel ruolo incarna, senza mai sapere se davvero sia sufficiente permetterselo, The Square abbraccia le estetiche del cinema scandinavo – su tutte il campo medio o largo di un maestro quasi insospettabile come Roy Andersson – ma le declina obliquamente con il desiderio irrisorio di compromettere autorialità e industria, Europa e Hollywood, complice un casting che include personalità chiave dell’attuale immaginario televisivo, come Elisabeth Moss e Dominic West. Un lavoro che orgogliosamente illumina il solido tavolino su cui è stato concepito, e che meriterebbe di essere ripagato della stessa moneta su cui fonda il patto con la trasversalità del suo pubblico, che ora pensa, ora ride, ora si annoia ma si sente intelligente perché ogni scena divora, con anarchico spirito parassita, i margini di osceno non detto che come ombre gravano sulla realtà o sulla sua rappresentazione. Ecco, potremmo dire che l’infinita performance dell’uomo scimmia al centro del film, estranea a qualsiasi plot e doppiamente ingombrante perché deviante, quasi terroristica per chi la vive e gustosamente disturbante per lo spettatore che vi assiste, ben sintetizza il desiderio di raschiare il vero con estenuanti pratiche di sottrazione all’accordo liquido secondo cui il vero non può mai essere un’allucinazione. Inutile sperare che un quadrato di luce al centro di una piazza, opera di un’artista esotica ancora da celebrare, possa condensare tutto il buono che la fiducia, la libertà e la solidarietà racchiudono nelle loro stesse definizioni: ci sarà sempre qualche pazzo che, senza saperlo, avrà già trasformato uno spazio umano in un campo minato.

Ruben Östlund, a modo suo, risponde al profilo.