Nato a Smirne nel 1973, Gürcan Keltek è un nome già conosciuto nel circuito dei principali festival europei (Visions du Réel, DOK Leipzig, FID Marseille) per via dei suoi cortometraggi. Il suo primo lungometraggio, Meteorlar, presentato in prima mondiale nella sezione Cineasti del Presente della 70esima edizione del Festival di Locarno, è indubbiamente uno degli esordi più interessanti dell’ultimo anno. A Nuoro, nel corso della seconda edizione di IsREAL – Festival di Cinema del Reale, abbiamo l’occasione di approfondire il discorso sul processo creativo del regista turco.

Filmidee: Prima di Meteorlar hai diretto due cortometraggi, che hanno circolato nei principali festival europei.

Gürcan Keltek: Tra il 2011 e il 2012 ho girato il mio primo cortometraggio, intitolato Fazlamesai (Overtime). Era un periodo in cui stavo sperimentando con il formato 8mm, ma non avevo in cantiere la realizzazione di un film. Volevo muovermi liberamente, con equipaggiamenti leggeri, senza una troupe. Ho comprato la cinepresa su internet. Mi è bastato prendere un po’ di familiarità con le luci e con le bobine, dopodiché ho cominciato filmare.

Fi: Quando la sperimentazione ha cominciato a prendere forma in un film?

GK: In quel periodo stavo maturando il desiderio di realizzare un cortometraggio sui paesaggi industriali di Istanbul: immaginavo la città come una grande macchina, e quelle location mi affascinavano. Avevo anche l’idea di parlare della classe lavoratrice di Istanbul. Che cos’è? Come la descriviamo? Così ho seguito tre personaggi: una ragazza curda che lavora in una fabbrica, un ragazzino che lavora nell’industria dell’oro – dove gli agenti chimici provocano gravi danni alla salute, fino a uccidere gli operai – e il terzo, il più importante, un ragazzo che vende il proprio corpo di fronte alla Moschea Blu, uno dei simboli di Istanbul e della sua religiosità. Quest’ultimo contrasto in particolare mi affascinava molto: un ragazzo che si vende a qualche turista ricco, proprio nel centro di maggiore attrazione della città. Ho girato sempre in 8mm, ed è per questo che il film è molto scuro, granuloso. Mi piace questa sorta di “pelle” della pellicola.

Fi: Con il tuo secondo lavoro cambi ambientazione: da Istanbul a Cipro.

GK: Esattamente. Qualche tempo dopo sono andato a Cipro per effettuare un location scouting per un altro progetto e sono finito accidentalmente nella zona demilitarizzata, la cosiddetta “Linea Verde”. Da lì mi è venuta in mente l’idea per un altro film, il mediometraggio Colony. La “Linea Verde” è un luogo molto interessante, dove il tempo è rimasto congelato all’epoca dell’invasione turca del 1974: i cartelloni pubblicitari, per esempio, sono ancora gli stessi, e nell’aeroporto abbandonato stazionano ancora i velivoli. Per me quella zona descrive lo spirito dell’isola, perché Cipro è sempre stata oggetto di interessi coloniali da parte delle potenze imperialiste per via della sua posizione strategica. Lavoravamo a stretto contatto con il comitato dei familiari delle persone scomparse, perché in quel periodo stavano scoprendo delle fosse comuni e, dagli scheletri che trovavano, facevano delle rilevazioni del DNA per dare un’identità ai corpi. È un film che tratta l’idea della memoria, dei traumi delle persone impossibilitate al movimento per le perdite dei propri cari. A seguito dell’invasione il conflitto tra greci e turchi è stato violentissimo, ci sono state tante vittime civili. Per me è stata anche un’occasione per mettere in discussione il passato della Turchia.

Fi: In questo film hai continuato a lavorare con la pellicola 8mm?

GK: No, ho deciso di girare in HD. Volevo un film statico, stilizzato e ben calcolato. Nell’isola si respira un senso di immobilità che non ho avvertito da nessun’altra parte. Avevo il desiderio di trasmettere questa sensazione. Cipro è un Paese davvero particolare, non solo geograficamente: anche nella mente delle persone che l’abitano si avverte questo senso di immobilità, il tempo pare non esistere. Tutto sembra fermo agli anni ’70.

Fi: I tuoi progetti sembrano nascere sempre in maniera accidentale. Quale processo ti ha portato alla realizzazione di Meteorlar?

GK: Ho visitato i territori curdi sud-orientali in numerose occasioni dagli anni ’90 in avanti. Ero cosciente di quanto stava accadendo. L’idea, tuttavia, è venuta in maniera incosciente, indipendentemente dal conflitto. Inizialmente mi sono recato sul monte Nemrut per fare delle riprese e in quell’occasione sono rimasto affascinato dagli stambecchi, così decisi di seguirli insieme ai cacciatori. Quando arrivò il momento più duro del conflitto, alla fine dell’estate del 2015, mi trovavo a Istanbul. Avevo l’influenza e guardavo col mio portatile dei video su Periscope. Quando cominciarono gli scontri numerose persone che vivevano nei quartieri caldi della rivolta iniziarono a fare spontaneamente delle dirette streaming. In queste riprese c’erano inquadrature fisse della durata di un’ora o due, a bassissima risoluzione, in cui si capiva poco di quanto succedeva. Tuttavia, guardando a lungo quelle immagini, si scorgeva qualcosa di magico: una ragazzina che correva, un’esplosione. Non c’era una copertura mediatica sugli avvenimenti, l’unico modo per informarsi erano queste dirette. La qualità e la spontaneità di queste immagini mi ha portato a scegliere questo stile a bassa risoluzione per il film.

Fi: Si è parlato di un conflitto, quello delle regioni curde della Turchia sud-orientale, che nel suo inasprirsi nell’autunno del 2015 è stato privo di immagini.

GK: Le immagini c’erano, ma erano banali, da telegiornale, o venivano usate come propaganda. Ecco perché ho avuto una sorta di rigetto di fronte alla possibilità offerta dalle videocamere di nuova generazione: l’alta risoluzione, il 4K… Volevo realizzare qualcosa di semplice, grezzo, perché il materiale a cui mi sono avvicinato per questo progetto era così.

Fi: Come mai hai deciso di utilizzare il found-footage?

GK: L’aspetto più importante di queste immagini riguardava il fatto che chi aveva effettuato le riprese forse non era cosciente del loro valore. Per me si tratta di cinema. Nel complesso, le riprese hanno diverse fonti: soldati, guerriglieri, e altre immagini provenienti da fonti di informazione critica. Alcune erano totalmente anonime, si pensava che coloro che le avevano realizzate fossero morti. Questa era un’altra idea che mi affascinava: quando riprendi qualcosa per conto tuo stabilisci dei criteri selettivi su come girare, mentre rapportarmi con immagini anonime rappresentava per me un nuovo territorio da esplorare. C’è una freschezza in questi filmati che ho voluto rispettare, una natura grezza, a solo apparentemente banale.

Fi: Mi sembra affascinante quest’idea delle fonti anonime. In che modo quest’idea si riflette nella struttura del film?

GK: Ho costruito il film immaginando che si trattasse di una raccolta di registrazioni perdute da qualcuno. È per questo che ho chiamato una delle sezioni del film “The Lost Tapes”. Volevo montare questi materiali come fossero delle registrazioni perdute da qualcuno, ritrovate in una casa o per strada: immagini costruite separatamente, ma che hanno una relazione tra loro. È anche questa la ragione per cui non ho voluto realizzare il film con macchine da presa moderne, 4K. Mi piace la bassa qualità, mi piace il sentimento di immediatezza che trasmette. La mia idea era fare un film “trasandato”, accidentale, immediato, non eccessivamente calcolato. Ho fatto il film molto velocemente, è stato un lavoro urgente, che rispetta l’immediatezza di quanto stava accadendo.

Fi: Nel processo di montaggio, in cui le tue immagini si ibridavano con quelle pre-esistenti, hai seguito qualche referente?

GK: No, si è trattato di un processo molto incerto. Stavo montando a Istanbul, e se mancava qualcosa tornavo a girare. Quando non potevo, date le varie problematiche che impedivano di andare a fare nuove riprese, ho avuto il supporto di Woman’s Initiative for Peace a Istanbul. Avevano bellissime immagini, girate non con l’idea di realizzare un film o un documentario, bensì come video informativi, per raccontare cosa stava succedendo in quel territorio.

Fi: Da dove provengono, invece, le immagini dei meteoriti?

GK: Sono riprese effettuate dalla troupe di un canale all-news russo al confine tra Turchia, Siria e Iraq. Stavano coprendo la guerra civile siriana e si resero conto che stava accadendo qualcosa di molto particolare. È stato del tutto accidentale.

Fi: Uno dei punti di continuità nei tuoi lavori è il bianco e nero. Da dove ha origine questa scelta?

GK: Effettivamente anche i miei corti precedenti erano girati in bianco e nero, ma in questo film la scelta ha un valore molto importante. Il film parla di un conflitto di lunga durata, e volevo trasmettere allo spettatore una sorta di eco del passato, perché non c’è differenza tra quanto accadde negli anni ‘70, ‘80 e dagli anni ‘90 fino a oggi. Abbiamo a che fare con una distorsione della memoria, rispetto alla maniera in cui ricordiamo le cose, rispetto alla geografia, rispetto alle persone che prendono parte al conflitto e rispetto al conflitto stesso. E in ogni caso il bianco e nero mi piace molto di per sé.

Fi: In Meteorlar la voice over legge passi tratti da un romanzo, The Vaccine, la cui autrice è anche la protagonista femminile del film.

GK: Sì, lei si chiama Ebru Ojen e viene dalla regione curda sud-orientale. È un romanzo di letteratura underground che unisce politica e immaginazione, un po’ alla William Borroughs, mi sembrava molto interessante. Nel libro il governo turco decide di sottoporre a una vaccinazione speciale tutti i bambini dei territori del sud. Inizialmente si pensa che la misura serva a evitare un’epidemia, ma alla fine il vaccino genera delle strane creature che vengono fuori dagli organi genitali. È un romanzo politico brillante ma si può leggerlo anche come un fantasy, è caratterizzato da una sorta di tono psichedelico che mi piace molto. Generalmente in letteratura ci si serve di un approccio realistico per affrontare le vicende politiche, ma in questo caso la scrittrice ha preso una direzione completamente diversa per criticare il sistema.

Fi: In che modo avete lavorato insieme?

GK: Abbiamo trovato una maniera autonoma e originale di lavorare, molto libera. Con questo film siamo stati molto punk, eravamo in pochi e ciò ha reso le cose più facili. Dopo aver scritto la voice over le inviai una prima versione che abbiamo poi corretto insieme. Solo in un secondo momento Ebru mi portò alcuni frammenti del suo romanzo e le chiesi di poterli usare. È stato un lavoro di ritaglio: abbiamo registrato la voce, l’abbiamo sovrapposta alle immagini che avevo montato, a volte funzionava e a volte no. L’idea era quella di infondere un tono letterario al film. Allo stesso tempo, il linguaggio del libro è molto semplice, scritto in maniera tale che chiunque possa comprenderlo.

Fi: Si può dire che il libro abbia avuto un’influenza sul processo creativo del film?

GK: L’idea di The Vaccine ha influenzato il film perché anche le immagini mantengono questa dimensione visionaria, annebbiata, fantastica, che travalica la situazione politica e le vicende d’attualità. Si tratta di un film molto personale, ha a che vedere con esperienze vissute in prima persona e per questo non poteva essere unicamente un film che tratta le questioni sociali nei territori curdi. Non mi era sufficiente. Ho ripreso queste idee e questi temi per usarli in altro modo. Quanto al libro, non si tratta di un adattamento: non c’è il contenuto del libro, all’interno del film, bensì il suo spirito. Con Ebru affrontiamo degli aspetti sovrannaturali per esplorare alcune idee riguardo la vita umana, l’esistenza, la geografia e l’influenza che essa ha su di noi.

Fi: Parlando degli aspetti “metafisici” del film: c’è un grande contrasto tra la bellezza, la semplicità delle riprese e la violenza del conflitto, la crudezza di certe immagini di repertorio; ma anche tra le bombe che cadono dal cielo e i meteoriti, e tra le immagini e le voci delle interviste ai locali. Quanto è stato importante questo contrasto nel processo creativo? O si tratta di qualcosa che è venuto a crearsi spontaneamente all’interno della struttura del film?

GK: Inizialmente ho montato molto materiale senza avere un piano di lavorazione specifico. Credo che il contrasto tra violenza e bellezza sia frutto di una decisione incosciente, anche perché non ho tenuto in conto categorie come la bellezza, ma ho fatto più attenzione al ritmo, all’atmosfera. La verità, come si può verificare, è che tutto è molto più violento rispetto a quanto si vede nel film. Detto questo, pur essendo agnostico e non credendo in Dio, mi piace l’idea di un certo misticismo, di una forza sovrannaturale che interviene quando due comunità che vivono nello stesso Paese smettono di ascoltarsi e cominciano a usare la violenza. Di fatto è quello che è successo quando è arrivata la pioggia di meteoriti.

Fi: Al di là degli elementi sovrannaturali, la maniera in cui racconti il territorio sembra mostrare il conflitto come qualcosa di atavico, radicato anche negli elementi naturali, dalla lotta degli stambecchi fino alla durezza delle montagne della regione, come se ci fosse una propensione naturale allo scontro.

GK: Sì, credo che la geografia e l’ambiente che ci circonda incidano su chi siamo e sul tipo di persone che diventiamo. Per me il film è anche la storia di una geografia e del suo spirito. Quando realizzavo Colony, per esempio, ho cominciato ad approfondire l’idea della psico-geografia: siamo uomini con caratteri e comportamenti legati a ciò che ci circonda (urbano, rurale che sia). Si tratta di qualcosa che ha a che fare non solo con i modi di fare, ma anche con la maniera in cui costruiamo i legami personali, le relazioni. Il concetto può essere adattato anche al paesaggio urbano, come accade in Meteorlar: due dei quartieri che vediamo nel film sono stati cancellati dalla carta geografica. Naturalmente cancellando questi luoghi si vuole cancellare anche la memoria delle persone, perché si trattava di quartieri con un’identità molto forte, in cui hanno vissuto e sono cresciute diverse generazioni, ed è l’aspetto politicamente più importante. Un grande potere arriva, cancella parti intere di una città per ricostruirci sopra qualcos’altro. Questo crea una mancanza di fiducia e di memoria. Mentre giravo mi sono fatto diverse domande su questo concetto, facendo in modo di tenerlo ben presente in tutto il processo.

Fi: Ci sono numerosi movimenti paralleli nel tuo film: la lotta politica e la lotta degli animali, le bombe e le meteore. Credo, però, che l’altro grande movimento che vediamo in Meteorlar non sia parallelo ma risponda a una tensione verticale, dal basso e dall’alto, tra la lotta che ha luogo sul suolo per il controllo del territorio e dall’altra l’imprevedibilità della natura. Le meteore arrivano come potrebbe arrivare un terremoto, qualcosa che può distruggere le costruzioni e le sovrastrutture umane restituendoci nient’altro che la propria terra.

GK: Sì, ma non solo: si tratta di qualcosa che ha a che vedere con il controllo. Così come in natura, nelle città si assiste a un tentativo di prendere il controllo, ma è del tutto vano. Quando arriva l’intervento esterno delle meteore avviene una perdita di controllo: il potere, la tecnologia non possono nulla. Ero molto affascinato da quest’idea. Qualcuno mi ha detto che le meteore sono una bellissima metafora, ma io non credo nelle metafore: le meteore erano lì, punto. Ad ogni modo, quanto avviene in quei territori, per me, ha a che vedere con qualcosa di alieno. Quando mi trovavo là parlavo con gli anziani e prima che cadessero i meteoriti dicevano che si sentiva un cattivo presagio. Mi piace pensare a quest’idea dell’intervento alieno, non nel senso di non-umano, ma nel senso di qualcosa di esterno che non appartiene a noi, di sovrannaturale. È un aspetto del quale non posso parlare apertamente perché non lo conosco, è una sensazione, non la posso e non la voglio spiegare al pubblico. Preferisco che ognuno la interpreti in maniera personale.

Fi: A volte sembra che certi cineasti intendano lo spazio da lasciare allo spettatore quasi come una concessione benevola. Nel tuo caso, invece, credo che si tratti piuttosto di un desiderio di condivisione di fronte a una sensazione, a una visione sublime, che tu stesso non sei in grado di definire.

GK: Voglio che il pubblico perda i punti di riferimento, voglio che lo spettatore sia sorpreso. È questo che intendo quando parlo di “tono psichedelico” in relazione al libro di Ebru Oyen… Quando abbiamo cominciato a lavorare al film ho detto ai miei collaboratori “facciamo un documentario psichedelico” e loro mi hanno detto: “di cosa stai parlando?”. Sapevamo che il film avrebbe trattato argomenti reali, ma anche che avrebbe assunto la forma di un incubo delirante, o di un sogno ad occhi aperti, in cui le cose prendono vita in maniera inaspettata. Anche se, ripeto, molto è venuto fuori in maniera incosciente, sulla scorta di un’incertezza costante. In generale sono convinto che la relazione che abbiamo con i film rimanga un mistero. Quando un amico mi parla di un film in sviluppo per esempio, ci sono immagini che non ho mai visto, che magari non sono nemmeno state ancora girate, ma che prendono vita nella mia mente. Posso non conoscere le tematiche, il background di un film, non mi interessa, le immagini cominciano a prendere vita nella mia mente e stabilisco immediatamente una relazione con esse. È qualcosa di profondamente misterioso. A questo proposito, io faccio il possibile per lavorare sul flow del film, lavoro tanto sul montaggio, faccio degli errori, abbandono il lavoro e poi torno indietro per ricominciare a tagliare. Se potessi lo taglierei ancora, per me è sempre un work-in-progress.