Person to Person è un film fatto di contatti umani: contatti mancati, cercati, e – solo talvolta – riusciti. Presentato l’anno scorso al SXSW, la pellicola si presenta come una commedia a episodi intrecciati, sorprendentemente priva di incastro finale. Le varie linee narrative si muovono in una New York ariosa, elegantemente fuori dal tempo, che guarda a Bogdanovich ed Altman. Un collezionista di dischi insegue una delle venticinque copie di Bird Blows the Blues; un’apprendista reporter cerca di sopravvivere al primo giorno di lavoro; un innamorato prova a farsi perdonare; un’adolescente si confronta con le proprie angosce.

Il respiro è jazzistico; si sente l’influenza di certi ritmi da cinema francese sessantesco, e non solo nel montaggio: lo sguardo, atteggiato a un naturalismo di maniera, rivela una consapevolezza stilistica matura, attenta agli spazi urbani e ai dettagli della messinscena. I dialoghi, artificiali ma non stranianti, reggono il gioco della commedia e spingono avanti, allo stesso tempo, una riflessione sottile sull’impermanenza che permea l’esistenza umana. Ma la tramatura esistenziale resta in sottotraccia, bilanciata peraltro da aperture finto naif e momenti di innegabile affermazione – umana e cinematografica.

Dustin Guy Defa è un cineasta irrequieto, con l’espressione un po’ stralunata e la fisicità di un Buster Keaton. Nel corso della conversazione appare titubante, quasi restio a tradurre idee in parole. Quando finalmente parla, lo fa in modo nervoso, correggendosi di continuo: ma negli inframmezzi del discorso si intuisce un’intelligenza lucida e pronta a interrogarsi. Filmidee lo ha raggiunto a Locarno, il 10 agosto 2017.

Filmidee: La cosa che mi ha colpito in Person to Person è la difficoltà, per un film all’apparenza così arioso e aperto, di trovare una chiave di lettura immediata. È un film che riesce a essere affettuoso ed empatetico, ma non diventa mai sentimentale: si percepisce una vicinanza sincera per questi personaggi, ma lo sguardo non è introspettivo né espressamente psicologico. Una chiave possibile è quella dell’impianto narrativo: abbiamo a che fare con un racconto corale. Ma di solito questi meccanismi prevedono un punto di convergenza, o – se vuoi – un orologiaio invisibile che tira le fila. Qui mi sembra invece che il cuore della storia stia nei microcosmi interiori dei personaggi: in quello che non vediamo ma intuiamo delle loro esistenze intime. Quando scrivevi la sceneggiatura, avevi previsto questa tensione tra l’impianto corale e le storie private dei personaggi? 

Dustin Guy Defa: Aspetta, non ti seguo sull’ultimo punto: qual è la domanda esattamente?

Fi: Dico che il film lascia trapelare piuttosto chiaramente la sua organizzazione complessiva – la propria natura di racconto corale, appunto – ma allo stesso tempo la vicinanza e l’affetto spontaneo che sentiamo per questi personaggi sembra provenire dall’intuizione di un vissuto, dall’accenno a un passato privato che resta fuori campo, non visto, quasi invisibile. E mi chiedevo se in sede di scrittura ti sei posto il problema di come conciliare queste due cose, e conservare l’impianto narrativo corale senza trasformare i personaggi in pedine di una trama a incastri. 

DGD: Ah, okay, ora ci sono. Penso sia vero che in generale, in questo periodo della mia vita e soprattutto quando scrivo sceneggiature, mi pongo molto il problema di come creare qualcosa che sembri estremamente casuale, quasi svincolato da ogni trama, ma che allo stesso tempo contenga un sacco di trama, senza darlo vedere. Con Person to Person volevo appunto creare qualcosa così: un film che scorre via come una brezza, senza che lo spettatore quasi se ne accorga, ma che poi, in retrospettiva, si rivela pieno di eventi di cui non ti sei reso conto. Tu prima parlavi della mano dell’orologiaio che tiene le fila del racconto… nel film invece della mano ci sono un sacco di elementi che tengono insieme il tutto, come una rete di connessioni invisibili – niente di tangibile o di concreto. Questo perché volevo trovare il modo di riflettere il senso di interconnessione invisibile che, nella mia esperienza, appartiene a New York.

Fi: A New York soltanto?

DGD: È qualcosa che si può trovare anche altrove, ma a New York specialmente c’è questo senso continuo di connessione con la gente. Sei lì che cammini per la strada e ci sono tutte queste altre persone, le guardi e sai di non essere davvero connesso a loro, ma allo stesso tempo lo sei, e in qualche modo queste persone hanno un effetto su di te, sulla tua vita. La mia sensazione è che a New York soprattutto siamo costantemente influenzati da cose che succedono in altre parti della città. Spesso nemmeno te ne rendi conto, ma la città è così densa, la gente così ammassata, e così anche un fatto minore che capita in un altro quartiere, come un banale incidente, finisce per avere un impatto sul resto della città, e tu nemmeno lo sai. Anzi, nemmeno conosci la persona che ha avuto l’incidente, o quella che lo ha causato: ed è per questo che non ho voluto cercare a tutti costi l’incastro finale nel racconto del film. Quello che conta è una sensazione, che è poi quella che effettivamente provo io: la sensazione che la mia vita e gli eventi della mia giornata siano connessi a cose che succedono in città, senza che io sappia chi ha causato cosa o chi è rimasto coinvolto. Resta solo quel senso di interconnessione. E chiaramente questo succede anche altrove, ma a New York è tutto più ravvicinato, sei sempre collegato a degli sconosciuti, e qualche volta riesci a sentirla, questa connessione, fisicamente, tangibilmente, quando qualcosa succede e ha un impatto sulla tua vita.

Fi: Capisco cosa intendi. Devo dire che mi affascina soprattutto la parte che riguarda la scrittura. Tu dici: voglio fare un film in cui un sacco di cose succedano, senza dare l’impressione che sia così. E mi viene da pensare che forse questo si può tradurre come un tentativo di evitare certi approcci un po’ meccanici alla sceneggiatura, per cui da un punto A si procede a un punto B e così via. Nel film questo non succede, e ti rimane quella sensazione che i personaggi abbiano una loro vita interiore, il che a sua volta aggiunge una dimensione ulteriore all’intero film…

DGD: … e fa sì che il film funzioni come un tutto organico. Esatto. È quell’interiorità che tiene insieme il tutto, e non è qualcosa che puoi indicare o isolare, ma fin dall’inizio sapevo che per ottenere qualcosa di coeso senza ricorrere al meccanismo dell’incastro finale a sorpresa avrei dovuto trovare qualcos’altro. E fin dall’inizio, quando ancora stavo sviluppando i personaggi, sapevo che quel qualcosa sarebbe stato il loro desiderio di contatto umano. Per qualcuno di loro avevo le idee più chiare, per altri meno, ma per tutti, prima ancora di capire cosa avrebbero fatto nella storia, si è trattato di decidere quanto desiderassero aprirsi agli altri, e quanto ne fossero in grado. Si trattava di capire dove cadessero in un arco di desiderio.

Fi: E in quel momento, ti sei lasciato dei margini, delle zone oscure? Te lo chiedo perché guardando il film ho avuto l’impressione che ci fosse sempre qualcosa come uno spazio sconosciuto – non proprio di incertezza, ma di riservatezza – inaccessibile al nostro sguardo. Ci sono linee che non attraversiamo; c’è un senso di rispetto, il che rende il tutto più sincero. 

DGD: Sì, senz’altro. Ora che ne parliamo, mi sta tornando in mente esattamente cosa cercavo di ottenere mentre scrivevo – anzi, mi stai aiutando tu a ricordare. Ogni tanto uno si dimentica. Il fatto è che appunto, volevo lavorare su questa idea dell’interconnessione, e quindi ho tracciato un arco per ciascuno dei personaggi, per capire dove si posizionavano. E per esempio, col personaggio di Wendy, sapevo fin dall’inizio dovo volevo che quell’arco finisse. Ed è strano, perché tra tutti è il personaggio che parla di più, ma in un certo senso il suo percorso  è il più misterioso, il meno definito, e volevo che fosse così. Ma poiché volevo che il film avesse questa coesione di fondo, sapevo che avrei bilanciato l’arco di Wendy con il percorso di Benny, che invece, dal punto di vista del desiderio, è il personaggio più risolto, più ovvio. È ovvio cosa cerca: ha una donna che gli interessa, ha i suoi amici, ha questa festa – sa cosa vuole e sa cosa si frappone fra lui e quello che vuole. Il suo desiderio,  come dire…

Fi: … è articolato chiaramente?

DGD: Sì, insomma, è quello espresso più esplicitamente… il suo e quello del suo coinquilino, che ovviamente vuole essere perdonato. Quindi in pratica ho sviluppato questa traiettoria per l’intero film, ma mentre in una sceneggiatura convenzionale hai questa struttura dove si procede di scena in scena, con un personaggio che si muove cercando di ottenere quello che vuole, qui essenzialmente cercavo di fare la stessa cosa ma in modo che le traiettorie di tutti questi personaggi si bilanciassero a vicenda. Ci sono sfumature diverse di ovvietà, se vuoi, ma ogni personaggio ha un problema da risolvere in rapporto al tema principale, rispetto al desiderio di contatto.

Fi: Mi colpisce che tu faccia riferimento al fatto che Wendy parli parecchio nel film. Mi sembra ci sia quasi un rapporto di chiarezza inverso, per lei, tra l’urgenza quasi nevrotica di spiegarsi a parole e il mistero del suo percorso narrativo. Ma in tutto il film mi sembra ci sia una specie di ambiguità intorno all’uso del linguaggio. Spesso abbiamo queste schermaglie tra personaggi intorno a determinate scelte di parole, come quando Wendy e Melanie parlano della differenza tra ‘perdere peso’ e ‘prendere chili’. Senza contare che Benny ha un modo di parlare molto particolare, più forbito di quanto non ti aspetteresti, quasi affettato. Epperò nel suo caso il linguaggio funziona, nel senso che lo aiuta a stabilire delle connessioni umane. Per gli altri, invece, rimane questa specie di pesantezza, come se le parole mancassero sempre il colpo. I discorsi di Wendy soprattutto sembrano procedere sempre in sovraccarico, come se si sforzassero di raggiungere un punto senza mai davvero riuscirci. Di nuovo, in sede di scrittura, ti sei posto il problema di questa tensione, tra i dialoghi e per esempio altri elementi espressivi, come i gesti o gli oggetti?

DGD: Guarda, la verità è che penso di essere registicamente debole in termini di scrittura visuale, e sto cercando di migliorare. E sono consapevole di questa cosa quando scrivo – anche adesso che sto preparando il mio prossimo film, per esempio – ma ogni volta che provo a pensare visualmente, non riesco; è qualcosa che per me interviene dopo. Quando scrivo, penso come uno scrittore e basta, non come regista – per quanto mi sforzi. Ho sempre in mente il montaggio, però – anche quando scrivo, e penso che sia una cosa molto saggia.

Fi: In effetti anche adesso, quando parlavi di come hai distribuito i personaggi in rapporto al loro desiderio, descrivevi una specie di montaggio narrativo.

DGD: Esatto. In questo modo riesci a vedere il film in un certo senso, o quanto meno a ‘sentirlo’. Comunque sì, siccome sono un po’ debole in termini di scrittura visuale, quando lavoro alla sceneggiatura tendo a concentrarmi molto sui dialoghi. Sto provando a cambiare, ma non è una cosa che mi viene naturale. Nel mio nuovo film c’è un rapporto più bilanciato tra dialoghi e linguaggio visivo, ma in generale tendo ad appoggiarmi molto alla parola parlata. È un elemento che amo, e mi ci è voluto molto per accettare questo fatto.

Fi: Quindi non lo vedi come un ostacolo nello sviluppo dei personaggi? Perché alcuni di loro sembrano avere un problema vero con le parole.

DGD: No, no, quel aspetto è presente, senz’altro, ma è voluto. Come dicevo, appunto, mi appoggio molto ai dialoghi, e tutti questi aspetti legati al linguaggio sono voluti. Sai, ogni tanto mi capita di vedere film che non si appoggiano davvero ai dialoghi, e mi viene da dire: dannazione, perché io non ci riesco…

Fi: Mi sembra che ora ti stia un po’ sottovalutando. La sequenza dell’inseguimento in bicicletta è parecchio cinematica, e anche quella di Wendy che cerca di andare contro corrente nella calca di gente…

DGD: No, lo so, c’è un equilibrio, o quanto meno ci provo. E forse oggi sono più a mio agio con il mio stile. Ma la verità è che sto cercando di venire a patti con l’idea del racconto in quanto tale. Dico il fatto di raccontare storie. Cosa significa, oggi, raccontare storie? Facciamo bene o male a raccontarle? E soprattutto come le raccontiamo, oggi che il pubblico è abituato a riconoscere cliché, formule narrative, cose così? In questo senso, i dialoghi per me sono centrali. Anche perché i miei non sono naturalistici. Voglio dire, non scrivo nel modo in cui la gente normalmente parla. E se fai questa scelta, diciamo antimimetica, allora davvero devi fare i conti con la finzione. Mentre invece se scegli di fare un film con meno dialoghi, o dialoghi che riflettono la realtà osservata, lì sei in un contesto diverso, documentario o pseudo-documentario. Ma i miei film vanno in un’altra direzione. E quindi mi ci interrogo parecchio: se non faccio cinema realista, perché allora lo faccio? Non lo so, è qualcosa con cui mi confronto. Ma alla fine ne vengo a capo, e mi entusiasmo a raccontare storie.

Fi: Se vuoi la mia opinione – e questo è qualcosa su cui ho riflettuto parecchio – la mia impressione è che tu stia seguendo un percorso coerente. Una volta ho sentito Charlie Kaufman fare riflessioni simili: come fare ad ‘aprire’ la scrittura in modo che non sia contrita, artificiosa, ma dia invece spazio ai personaggi per esistere nella scrittura, senza dover ricorrere ad altre risorse espressive – attori, gesti, presenza, eccetera – in quella chiave documentarista che descrivevi adesso. A me sembra che tu stia lavorando sulla stessa linea. E in particolare, penso che in questo film sia la città, come dicevamo prima, a farsi carico di portarci oltre i limiti della parola e oltre i cliché del racconto. Da un lato hai questo magma linguistico, spesso inconcludente, e dall’altro hai la città come organismo. Ed è la città che garantisce quel senso di interconnessione di cui parlavamo, di modo che anche quanto i personaggi faticano a comunicare, il film fa comunque trapelare quel senso profondo di coappartenenza.

DGD: Vero. C’è anche una dimensione ulteriore, però. Volevo fare un film che fosse, allo stesso tempo, di New York, ma non su New York. Se noti, ho ripreso la città in maniera un po’ diversa dal solito. Ho evitato gli angoli più riconoscibili. Ci sono un po’ di inquadrature dello skyline, ma solo un paio – una spruzzatina. Questo perché da un lato, sì, volevo riflettere sul senso di interconnessione. Dall’altro volevo riflettere su un aspetto più universale, che per me è fondamentale, che ha a che fare col tempo che passa. Il film è anche il racconto di una giornata, con tutti i minuscoli eventi che costellano l’arco di un giorno. Cose di un attimo, che sfilano via senza che ne accorgiamo: persone che si passano accanto per un momento. Forse, più ancora che la questione della città, è di questo che stiamo parlando. Più ancora che su New York, è un film sul tempo che passa, sull’esistere con gli altri: il modo in cui puoi perdere qualcuno, o trovare un amico, il fatto che questi contatti umani siano aleatori, inevitabilmente. Alla fine, se consideriamo tutto il film nel suo insieme, è vero che Benny riesce a fare la sua festa, e ritrovarsi con i suoi amici, ma la storia nel suo complesso suggerisce che c’è comunque qualcosa di transitorio e di fragile in quel momento, e che forse proprio per questo vale la pena di festeggiarlo…

Fi: Io direi che c’è della speranza.

DGD: Be’, per Benny, sì.

Fi: No, dico più in generale. Mi sembra che il film alla fine ci dica che la possibilità di stabilire un contatto umano, dopo tutto, esiste…

DGD: Si, l’idea è quella. Che quel contatto sia importante, e che valga la pena custodirlo e proteggerlo. Non sto cercando di dare lezioni, ma è qualcosa che vorrei trasmettere, in qualche modo, perché è qualcosa che io stesso ho imparato, e che ho imparato anche da Benny: quanto sia importante essere un amico, e quanto possa fare male perdere un amico. Questo è qualcosa che ho davvero imparato negli ultimi quattro anni.

Fi: Rigirando un po’ la questione di New York: il tuo nome viene spesso associato alla scena cinematografica indipendente newyorchese. Pensi che il far parte di una comunità locale, in quanto cineasta, abbia avuto un impatto rilevante sul tuo lavoro?

DGD: Senz’altro. Ha avuto un impatto enorme. Direi che è stato indispensabile, almeno per me, fare parte di quella scena, di una comunità, essere amico di quelle persone. Anche adesso. A volte capita che ci sentiamo completamente disconnessi fra di noi, e forse è qualcosa che capita a tutti in un modo o nell’altro. Ma poi ci sono momenti in cui ci ritroviamo. Abbiamo tutti imparato moltissimo gli uni dagli altri, o almeno io, parlando dei film che vediamo, confrontandoci. È una situazione ideale, in un certo senso – anche se ora i rapporti non sono strettissimi. È curioso, in effetti: più le nostre carriere si sono consolidate, più i legami si sono allentati. Come regista, credo di avere sviluppato una personalità più individuale, fuori dalla scena: ma allo stesso tempo questo ha rafforzato la scena stessa. Sono ancora legato a quella comunità, ma in un certo senso ne ho meno bisogno, perché sono più forte come individuo. Credo che l’allentamento sia un fatto naturale. La tua carriera va avanti, hai sempre meno tempo, e i contatti si allentano un poco. Ma anche se non vedo più le stesse persone così frequentemente, i legami rimangono. E quando vedo il film di qualcuno che non ho visto da un po’, ritrovo quel senso di co-appartenenza, di interconnessione. Anche lontano da New York.