Pur tenendo conto della varietà e di quanto sia inevitabilmente problematico definire una stagione come la Nová Vlna con schemi eccessivamente vincolanti, potremmo ad ogni modo sostenere come la Nuova Onda del cinema cecoslovacco sia stata nel panorama delle nouvelle vague europee quella complessivamente più ironica, beffarda, sorniona e irriverente. In qualche modo, quella più comica.

Comicità espressa più o meno carsicamente in commedie apparentemente lievi che raccontavano il tragicomico di una realtà quotidiana asfissiante, assumendo il punto di vista e le rivendicazioni delle generazioni più giovani – è il caso di Asso di picche (1964) e Amori di una bionda (1965) di Miloš Forman oppure attraverso un’ironia più dichiarata, grottesca e feroce che, partendo da microcosmi specifici, affrontava la realtà sociale e politica nel suo complesso – sempre Forman con Al fuoco, pompieri! (1967) e Jiří Menzel con Treni strettamente sorvegliati (1966); o ancora per mezzo di un surreale angoscioso e kafkiano, come nel caso di La festa e gli invitati (1966) di Jean Němec.

Tonalità comiche qui sommesse e lì più esplicite, talvolta più lievi (mai però davvero fino in fondo “leggere”) e talvolta dure e acri, sottilmente sornione o esplicitamente irriverenti, in commedie dichiarate o in film cupi e drammatici dove l’umorismo ricopre comunque un ruolo non secondario – è il caso de Lo scherzo (1969) di Jaromil Jireš. È un po’ come se gli autori protagonisti della Nova Vlna avessero sperimentato tutto il potenziale critico, allegorico e beffardo delle varie tonalità del comico. Nella sua introduzione alla retrospettiva I ribelli del ’68. La nuova onda del cinema cecoslovacco, che il Bergamo Film Meeting ha dedicato alla stagione in occasione del cinquantennale della Primavera di Praga, Paolo Vecchi ha del resto individuato “il sorriso malinconico capace di improvvise impennate sarcastiche” come uno degli “elementi costitutivi della cultura nazionale” rimasti fondamentali anche nelle poetiche dei vari esponenti della nuova onda.

Prendiamo due esempi molto diversi tra loro e meno celebri delle opere di Forman o di Menzel; il vivace e apparentemente spensierato musical La ragazza del tram (1966) di Ladyslav Rychamn, visto al Bergamo Film Meeting, e la surreale e cupa allegoria La festa e gli invitati (1966) di Jean Němec, selezionato dal torinese Sottodiciotto Film Festival per ricordare lo stesso anniversario. Infine, un accenno a Lo scherzo di Jaromil Jireš, visto a Bergamo, quale esempio di come anche in film drammatici riecheggino e assumano un ruolo non secondario le forme l’umorismo.

La ragazza del tram è un musical vivace con protagonista una conduttrice di tram abituata ad avere un ruolo di secondo piano in famiglia e nella società e a tenere a bada l’insoddisfazione e le rivendicazioni. Alla scoperta causale del tradimento del marito, la sua frustrazione esplode e si trasforma in ribellione. La protagonista inizia a comportarsi con la stessa libertà concessa agli uomini, accendendo l’orgoglio delle altre donne e mettendo in crisi le concezioni e le autorappresentazioni di genere dominanti. Si comporta come una mina vagante che capovolge le regole di un contesto opprimente e dedito al più radicato conformismo maschilista. Fondamentale per rappresentare questo capovolgimento è la maniera con cui il film rielabora la follia paradossale tipica della screwball comedy. L’autista di tram pare un’erede delle figure femminili che nelle migliori screwball erano in grado di scompaginare le carte e di avere un effetto devastante sulle convinzioni e, più sottilmente, sulla concezione del mondo dei maschi loro co-protagonisti. Allo stesso modo, i personaggi maschili vengono chiaramente messi alla berlina, apparendo come sciocchi, deboli, inconsapevoli o come burocrati incapaci di leggere la realtà al di fuori degli schemi previsti dal conformismo di regime.

La ragazza del tram è certamente un film che ha come obiettivo principale quello di divertire, ma nel quale è evidente una consapevole e neanche troppo remota vena di irriverenza, che in alcuni momenti diventa esplicito sarcasmo esponendo in maniera palese gli obiettivi colpiti (si pensi, per esempio, alla sequenza ambientata nel commissariato o al numero musicale del party aziendale). C’è la volontà di mettere in discussione le concezioni sociali dominanti e di dare voce agli aneliti di libertà di una realtà sociale, quella delle donne, priva di una vera voce e nella quale stava crescendo una maggiore consapevolezza di sé, esattamente come era accaduto l’anno precedente nell’amarognola e altrettanto lucida tragicommedia del quotidiano Nei panni di una bionda di Forman. Il finale, che conferisce una connotazione quasi onirica a quanto visto, è solo apparentemente un passo indietro dovuto agli ovvi compromessi con il contesto politico; è una chiusa in realtà tra le righe amara e ancor più beffarda, certamente non accomodante, che conferma come il film fosse spensierato solo nell’immediatezza della superficie, e nella sostanza fosse al contrario una netta presa di posizione.

La festa e gli invitati di Jean Němec è invece una più evidente allegoria del regime e del suo potere oppressivo e di come questo sia capace di pregiudicare l’esistenza delle persone e la loro natura fin nel profondo della quotidianità. Il pretesto narrativo è infatti assolutamente quotidiano: una gita nel bosco di quattro coppie d’amici. Qui avviene però l’incontro con un misterioso gruppo, che, dietro l’apparenza bonaria e giocosa, dimostra un’inquietante consapevolezza delle vite dei protagonisti, prima interrogati e poi costretti a partecipare ad una festa insieme a decine di altri sconosciuti invitati. Qui il festeggiato, una sorta di leader, coordina le danze dando l’apparenza di un evento il più possibile lieto e piacevole, ma è evidente la costrizione a cui sono sottoposti gli avventori e come non siano permesse la minima iniziativa personale né il minimo scarto dal divertimento prestabilito. Metafora evidentissima di un controllo implacabile resa con un grottesco quasi surreale e angoscioso, allo stesso tempo sornionamente ironico e, in particolare nelle sequenze dedicate alla festa, più dichiaratamente ridanciano. Le atmosfere ricordano, in ambito letterario, Kafka e certi racconti di Gogol’ mentre, in ambito cinematografico, riecheggiano gli esordi di Roman Polański, per lo spazio limitato da cui pare impossibile fuggire, per il rapporto tra aguzzini e vittime e, appunto, per il surrealismo grottesco e metaforico tutt’altro che privo d’ironia. Teniamo conto infatti che, come accade negli esordi polanskiani, oltre a “colpire” il regime, il film metta alla berlina, in momenti che richiamano una più classica commedia di costume, anche gli atteggiamenti delle vittime. Un’altra parentela molto forte e ancor più significativa è quella con la coeva animazione cecoslovacca: si pensi, ad esempio, al capolavoro in stop motion di Jiří Trnka La mano (1964), oppure al surreale Picnic with Weissmann (1968) di Jan Švankmajer. C’è la stessa capacità di allegorizzare un potere e un controllo che paiono inesorabili e letali, capaci di annullare l’individuo –  la mano “protagonista” del cortometraggio di Trnka è forse il “personaggio” più emblematico e potente da questo punto di vista, ma altrettanto efficace è la quasi totale assenza dell’umano nel lavoro di Švankmajer; anche in questi casi, l’approccio critico trova nell’umorismo torvo e quasi sfuggente, di sottofondo, uno strumento essenziale.

Infine, Lo scherzo di Jaromil Jireš. Un’opera quasi interamente costruita con materiali di repertorio che ricordano gli anni di radicamento del regime filosovietico e il tradimento delle illusioni più libertarie; con  flashback per mezzo dei quali il presente del protagonista, un trotzkista condannato all’espulsione dal partito e ai lavori forzati, si sovrappone continuamente al suo passato, quasi senza soluzione di continuità grazie all’abile “mix” tra il montaggio sonoro e quello visivo. È un film che racconta l’ossessione e il desiderio di vendetta e che e gioca su due piani di denuncia: quella più esplicita e dura dell’inasprirsi del regime tra gli anni ’40 e i ’50, e quella più sottile della realtà coeva asfittica e senza sbocchi, in particolare, ancora una volta, per quanto riguarda donne e giovani. Come accennato, il film è un’opera dura che affronta di petto la storia recente del paese. Allo stesso tempo però non mancano le sequenze ironiche, inserite con una certa ricorrenza, non solo per alleggerire la narrazione: in alcune c’è l’osservazione un po’ ironica e un po’ malinconica tipica delle prime commedie di Forman, in altre, dedicate a personaggi simbolo dei “tipi di regime” e del conformismo verso cui è rivolto il mirino del sarcasmo, una ferocia più diretta. Sono solo veloci annotazioni di costume che non modificano l’impianto drammatico di fondo all’opera, ma che, oltre a un’indiscutibile efficacia, confermano la tendenza all’umorismo e alla beffa che caratterizza, anche tangenzialmente, molti film della Nová Vlna.

Concludendo, se ne La ragazza del tram c’è una comicità diretta che scatena la risata pura e immediata, nel film di Němec questa si fa tetra e dura, tanto sottile quanto implacabile, e necessita di una rielaborazione che passa da un sorriso inquieto a un senso quasi di disagio. In entrambi i casi c’è però l’irriverenza, l’approccio beffardo e la capacità di manipolare le varie forme della comicità non solo per sfuggire alle maglie della censura e porsi in maniera critica nei confronti del regime. Altrettanto decisivo infatti è come in questi casi, compresi quelli solo citati, il comico declinato nelle sue varie forme indichi la presa di coscienza di un individuo, sia egli singolo o esponente di una categoria sociale, che rischia di essere annullato e distrutto. Sono film che, declinando l’umorismo in vario modo, in qualche modo usano l’arma della beffa e del “sorriso malinconico capace di improvvise impennate sarcastiche” per lanciare un campanello d’allarme e per cercare nuove strade verso quella libertà che la breve stagione della Primavera di Praga illusoriamente parrà offrire. E le cui lezioni, come in qualche modo anche Lo scherzo dimostra, non andranno in ogni caso perdute.