Non si tratta soltanto di capire se e come il nuovo cinema italiano di finzione stia oggi dialogando con la realtà, nella misura in cui tenti di rendere conto di fatti o eventi con cui la nostra quotidianità entri in contatto, o che l’attualità dimostri di riflettere. Si tratta di provare anche a dischiudere che cosa oggi, parlando di cinema in Italia, possa intendersi con realtà.

La modernità, che nel suo corso ha dischiuso anche al cinema quella necessità di stabilire con il reale un rapporto che vada “al di là dell’imitazione, per divenire messa a nudo, smascheramento, raschiatura, scavo, riduzione violenta dell’esistenza ai suoi elementi primari” (Michel Foucault), ha ribadito l’ormai irriducibile divaricazione tra apparenza e verità, dove la prima intenda la dimensione materiale della realtà, ormai incapace di qualsiasi portato simbolico e dunque irriproducibile attraverso un sistema di segni significativi, e la seconda una tensione quasi irrinunciabile ad accedere, in mancanza di definizioni migliori, a “ciò che è così come è”. Il distinguo è necessario e drammatico, perché oggi appellarsi alla realtà significa anzitutto subire il giogo della sua perdita di valore, a partire dalla sua dimensione più tangibile, e vedersi costretti a elaborare strategie e soluzioni alternative, approntando quegli strumenti capaci di resistere alla disgregazione di significati in cui, indubitabilmente, ci vediamo calati proprio come in un’anarchia di atomi scevra da gerarchie e aperta al brulicare selvaggio della vita.

“Fare posto alla realtà seppur in modo trasposto” (Angelo Guglielmi), nel tentativo di indagare ciò che di più indicibile, di “non detto” e nascosto (trascendente?) abita le cose. Il punto però è che la sfida è sempre stata questa, e se qualcosa è cambiato, e sta continuando a cambiare, si tratta delle regole d’ingaggio. Perché la realtà è sempre stata in campo, anche quando il cinema costruiva mondi che sembravano invitare a fuggirla, e se di tanto in tanto si parla di “ritorno” alla realtà, o ci si appella alla tanto vituperata etichetta di “cinema del reale”, è solo per capirsi, non certo per esaurire l’indagine. Anche per questo la recente stagione del documentario italiano, non a caso una delle più storicizzabili dall’inizio del terzo millennio (in senso positivo: se il recupero del rapporto con la realtà potesse misurarsi, sarebbe anche nei termini di una ritrovata fiducia nella Storia), non può che considerarsi creditrice del cinema di finzione ad essa successivo. Non soltanto perché ha saputo dischiudere l’attenzione verso mondi, storie, e specialmente forme, che il cinema di finzione, in tutti i suoi gradi, ha sapientemente saccheggiato e ritenuto riconoscibili per giustificare la propria direzione agli occhi degli spettatori. Ma perché i lavori, tra gli altri e secondo le più varie prospettive, di Pietro Marcello, Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, Gianfranco Rosi, Alina Marazzi o Roberto Minervini, indipendentemente dai pregi e difetti che in altre sedi possano loro essere stati attribuiti, hanno saputo spostare lo sguardo sulla realtà verso un’attitudine di ascolto e interrogazione inediti, tali da non considerare la realtà un materiale da “sistemare”, e mai calare in essa i principi ordinatori e prescrittivi di una morale che potessero finire per snaturarla o, peggio ancora, falsificarla. Per questi autori, alcuni dei quali poi destinati anche alla finzione, la realtà era e rimane un dato organico che cela le dinamiche del proprio riconoscimento: decisivo diventava capire e scegliere come metterle in moto, generando una febbre e un’energia – direbbe ancora Angelo Guglielmi – non tarati sul metro del “buono e del cattivo”, ma “dell’intensità”. E, con la certezza di una debita distanza, possiamo dire che dopo i loro film, spesso bistrattati al botteghino, anche il cinema di finzione – o almeno quello che mostra di interrogarsi sulla realtà – non è stato più lo stesso.

Resta però aperto il problema di cosa comporti oggi, per un autore proteso verso il cinema di finzione, rintracciare e interrogare la realtà. A volerlo ridurre alla lezione zero delle più tradizionali scuole di cinema, il discorso concerne il cosa raccontare e il come raccontarlo. La narrazione, e il linguaggio che lo sostiene, come cardini di un tentativo di relazione con la realtà. Questioni che si offrono a ulteriori equivoci. Sì, perché se appare del tutto arbitrario contestare la natura diegetica della forma cinema, indipendentemente dalle sue implicazioni ideologiche, questo non garantisce affatto che lo sguardo “disponga delle cose della realtà a proprio piacimento”, calandovi sopra un’idea di mondo. La realtà oggi è un oggetto disponibile ai più diversi esiti, alle più diverse possibilità: non basta affidarsi alle forme tradizionali con cui essa si palesa, per garantire un esito di verità, non basta credere che la realtà collimi con le sue più effimere manifestazioni, per restituirne il processo. Di cosa occorrerebbe tener conto oggi per raccontare, ad esempio, la precarietà economica nel nostro paese? La via dell’aneddoto, evidentemente, non sarebbe sufficiente come (forse) lo era sessant’anni fa per raccontare i poveri: perché la realtà sarebbe rivestita di una carica cronachistica che finirebbe per accaparrarsi tutta l’attenzione di chi guarda, riducendo sensibilmente la possibilità di accedere al suo nucleo profondo. E poiché l’aneddoto, o la cronaca, presto si rivelerebbero insufficienti, chi decidesse di raccontarli correrebbe presto il rischio di integrarli con un giudizio morale, che dalla letteratura al cinema appare il primo segno di un atteggiamento non della realtà, ma dell’idealità. Un dato cioè fondante la storia del narrare, ma ormai ineluttabilmente perduto, o esposto al rischio di una mediazione ideologica che, sottoposta a fatti e personaggi, produce quel vago odore di stereotipo, di convenzione, spesso consolatori o normativi.

Stesso discorso potrebbe farsi per il linguaggio, nella misura in cui esso si disponga a voler essere mezzo di mobilitazione e scoperta della realtà, mediando con le necessità, spesso vincolanti, di un discorso logico e articolato così come il sistema produttivo italiano tende a concepirlo e promuoverlo. Entro una dimensione forzatamente diegetica, come è possibile declinare le forme senza incorrere, ancora una volta, nel rischio di voler suggerire con il linguaggio la struttura stessa del mondo, e incappare così in un clamoroso rischio di falsificazione? Di fronte all’oggetto che deve riflettere, il linguaggio è sì uno strumento per fabbricare la realtà, ma anche il suo prodotto. Così i fitti sistemi di segni, parole, inquadrature e toni che vengono messi in campo non possono davvero più costituire la misura delle cose, ma sono le cose stesse. Oggi allora appare decisiva la tendenza, per chi vuole raccontare la realtà, a “indebolire” il linguaggio, a scarnificarlo per tentare di opporsi a ogni tentazione razionalizzante o interessata: perché nell’indebolimento, nell’apertura, nell’ambiguità è possibile intercettare, anche al di sotto del racconto, le tracce di un processo formativo del reale. Per questo il cinema che cerca la realtà ha l’obbligo di confrontarsi con il primato dei corpi: perché è a partire dalla fisiologia che può tentare di stabilire i primi, fondanti punti di contatto con ciò che tenta di rappresentare, giocoforza orientati all’imprevedibile, al molteplice. Al contempo, come vedremo, le pratiche e le tecniche sono chiamate a interrogare e verificare costantemente se stesse: per dirlo con una battuta, non basta (o non basta più) una camera a spalla a seguire i personaggi, come i Dardenne hanno a loro tempo insegnato, per poter fare un grande film sulla realtà.

Non resta che tornare alla premessa di partenza e provare a chiedersi quanto sia difficile, oggi, in Italia, entrare in contatto con questa realtà. La risposta è ben ovvia: l’accesso ai processi del reale si configura nel nostro paese come lotta quotidiana contro schermature e manipolazioni. Evidentemente ricondurre alle immagini ciò che le istituzioni non vogliono mostrare – lo scarto, il rifiuto, ciò che è stato dimenticato o censurato – è una prima, nobile forma di restituzione della realtà. Eppure non basta pensare che sia sufficiente parlare a tu per tu con quei luoghi o quei modi di vita che la politica o la televisione ignorano o mistificano, per riuscire a percepire o restituire la realtà in modo giusto. Occorre procurarsi quell’atteggiamento di realtà che, da una parte, non risulti ingabbiato dall’aneddoto o dalla cronaca, e dall’altra, sposti l’autore in una posizione di coraggiosa precarietà, necessaria a concorrere con il reale senza soffocarlo entro il proprio punto di vista e le proprie prospettive, e dunque vederlo nuovamente sfuggire. Autori come Alice Rohrwacher, Laura Bispuri, Irene Dionisio, Roberto De Paolis, Jonas Carpignano, Andrea Segre o Claudio Giovannesi, insieme a molti altri non necessariamente meno noti, abitano il tempo di queste domande e, ciascuno a modo proprio, tentano di rispondere con strategie il più possibile personali. Ancor prima delle storie che hanno saputo veicolare, sembrerebbero dividersi (se una divisione davvero è possibile) tra chi vorrebbe, spesso guardando al documentario, tentare della realtà un’interpretazione, con esiti formali più diretti e radicali; e chi, forse mediando le lezioni del cinema americano e anglosassone, vorrebbe usare il linguaggio per disegnare, o costruire, il reale, facendone un campo di esperimento in termini emozionali. Tra la trascendenza della forma e la ricognizione empirica, appaiono chimere di puro slancio immaginativo, come nel caso di Alessandro Comodin e del suo I tempi felici verranno presto. Senza liste di buoni o cattivi, la partita si gioca ancora una volta intorno al problema delle pratiche.