Non si dimentica facilmente lo stupore. E proprio i volti illuminati dall’improvvisa irruzione della modernità in una mezzadria fuori dal tempo sono l’immagine che meglio riassume la visione del nuovo film di Alice Rohrwacher. Bisogna essere disposti a farsi stupire, a mettere in discussione le nostre piccole regole spettatoriali, a lasciarsi trasportare in un universo altro, quello fiabesco, per entrare in Lazzaro felice – terzo film della regista, presentato nella competizione principale del Festival di Cannes e accolto da un fragoroso applauso – allegoria di un processo storico italiano non ancora rielaborato. La scomparsa della mezzadria, sancita da una legge dei primi anni Ottanta, è lo spunto di partenza per trasformare le istanze di Pasolini in una fiaba sulla disgregazione del mondo contadino e la sua parcellizzazione nella società contemporanea, aprendo un dialogo di rimandi nei temi e nei toni con un altro film italiano alieno come Bella e perduta di Pietro Marcello.

Si inizia dal buio profondo della notte in campagna e dal suono di una zampogna, che segna un nuovo fidanzamento: una scena che è un vero e proprio omaggio ai “lumaconi” de L’albero degli zoccoli. Ma il registro è lontano dall’opera di Olmi: dopo l’incipit verista, il tono diventa quello di un racconto orale, ricco delle sfumature di mille voci, ondivago ma puntuale, fantastico e vero. All’Inviolata una cinquantina di contadini raccolgono il tabacco per la Marchesa de Luna (interpretata da una calibrata Nicoletta Braschi): sono cresciuti senza conoscere la proprietà privata, vivendo dei prodotti della terra e di qualche bene concesso dai padroni. Il loro unico nemico è il lupo, che minaccia il loro già scarso bestiame. Lazzaro, non ancora ventenne, è il ragazzo buono (esordio folgorante del diciottenne Adriano Tardiolo) che assiste tutti, ultimo degli ultimi, di cui tutti si approfittano. Proprio per questo il coetaneo Tancredi, figlio della Marchesa, piccolo principe ribelle e scostante, sceglie lui come suo compagno d’armi, investendolo di un ruolo da suo doppio, degno della Gerusalemme Liberata. Ma proprio quando “il grande inganno” a cui sono costretti i lavoratori viene sciolto, Lazzaro cade da una scarpata, restando fuori da un processo di modernizzazione a cui dovranno far fronte tutti gli altri, deportati in una metropoli, inospitale per chi non sa come tirare a campare.

Diviso in due parti speculari nella narrazione, ma profondamente diverse come cifra stilistica, il film di Rohrwacher opera un elaborato processo di stilizzazione di una profonda cesura avvenuta in un Paese dalla tradizione agreste come il nostro. Negli ultimi quarant’anni, la repentina sparizione della figura contadina è corrisposta a un progressivo abbandono del rapporto di rispetto tra uomo e natura, tra collettività e individuo, relegando ai margini coloro che ne facevano parte. Ed è proprio a loro che sembra dedicato questo film, in cui compaiono i nuovi sfruttati delle grandi imprese agricole (soprattutto i migranti, come ci raccontano tristemente le cronache), ma anche chi è costretto a vivere ai margini della comunità, come gli ex-contadini dell’Inviolata, raccolti un container post-apocalittico, che ci ricorda i tanti campi rom delle periferie urbane. Se a sancire la rottura tra i due tempi del film è l’intervento dello Stato (con l’elicottero dei carabinieri, che prende il posto della troupe televisiva delle Le meraviglie), nella città il potere è in mano alle banche: unica istituzione che sancisce gli impossibili cambiamenti, mescolando i destini di aristocratici e plebe, nella trasformazione di una piccola borghesia che aspetta il proprio turno disciplinata e in fila.

La grandezza di questo racconto metaforico sta nei momenti (e sono tanti) in cui la ricchezza visiva del quadro lascia aperta una polisemia di riferimenti e letture, proprio come avviene nelle fiabe. Gli archetipi della cattiva regnante, dell’idiota del villaggio, del cavaliere codardo vengono trascesi dalla capacità di essere dentro e fuori un racconto cinematografico, che non ha paura di mostrarsi anche nella sua accezione più essenziale: una voce fuori campo che racconta una parabola francescana (su un lupo che riconosce un uomo buono) sulle immagini degli aguzzi e glabri crinali delle montagne. Sarà il potere della parola a ridonare la vita a Lazzaro, vero e proprio personaggio “cittiano”, in una metropoli che ha perso ogni nesso con le proprie origini: e anche se la rigidità del paesaggio non offre la stessa profondità della campagna, indirizzando in maniera più netta il senso della storia, le azioni naif di questo stalunato revenant ci mettono di fronte al coraggio della bontà di fronte a un mondo schiavo delle proprie ideologie.

Rivoluzionaria, come Lazzaro, Alice Rohrwacher non smette di stupire con la forza visionaria di immagini senza tempo, talvolta grezze come i personaggi che racconta (in un Super16 senza mascherino), altre volte mirabili come le vette a cui punta. Nell’equilibrio tra naturalismo e astrazione risiede il fascino di un cinema “puro” come le azioni (e non solo i sogni) del suo protagonista, che si offre più volte nella sua ambivalenza. Santo o idiota, profeta o contadino, rivoluzionario senza sapere di esserlo o emarginato da un sistema spaventato dalla sua semplicità: i suoi occhi sgranati sull’Altro sono difficili da dimenticare, così come Lazzaro felice, mirabile esempio di chi sta segnando con impavido coraggio e ostinata determinazione un’altra strada per il cinema italiano. [Daniela Persico]


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SANTA SANGRIA

Accolto da schiere di fan urlanti al Theatre de la Croisette per la proiezione ufficiale di Climax, Gaspar Noé è l’enfant terrible del cinema francese (e fiero di esserlo, come testimonia una didascalia a caratteri cubitali su tricolore rosso, bianco e azzurro in apertura di film). Tanto amato quanto odiato, dal regista di Irreversible, Enter the Void e Love non ci si attende la solita della dose di shock delle opere precedenti ma un costante rincaro, e la campagna promozionale del nuovo film mira in tale direzione, invitando chi ha odiato, disprezzato e maledetto quelli precedenti a “provare” questo, girato in 15 giorni e prodotto, tra gli altri, anche da VICE.

Un invito al massacro? Forse sì, e le prime immagini riprese dall’alto di un corpo che si trascina su un manto di neve immacolato lasciandosi dietro una scia di sangue lasciano presagire il peggio (o il meglio, a seconda dei punti di vista). Partono i titoli di coda, e il pensiero corre a Irreversible: un’altra storia di agonia e violenza raccontata a ritroso? Niente affatto, si tratta solo di un frammento impazzito di film, che comincia “davvero” con una serie di interviste ai componenti di un gruppo di ballo mostrate sullo schermo di un vecchio televisore intorno al quale sono impilati libri e VHS. In bella vista l’autobiografia di Buñuel e il suo Un chien andalou, ma anche Argento, Romero e Zulawksi. Poi parte la musica, che non smetterà mai, e sulle note di Trois Gymnopédies di Satie rielaborata al sintetizzatore da Gary Numan, comincia una sequenza di danza acrobatica da fare invidia all’incipit di La La Land, realizzata senza stacchi all’interno della scuola di ballo in cui avrà luogo tutto del film. Trascinante, a dir poco: erotica e animalesca come non era certo quella del film di Chazelle, presenta l’ensemble multiculturale di scatenati ballerini in preda a una techno trance che la vorticante macchina da presa del regista accompagna e asseconda, gettando lo spettatore nel mezzo di una mischia di corpi posseduti.

Cosa succede dopo meglio non dirlo: qualcuno ha sciolto dell’LSD nella sangria che tutti hanno bevuto e dopo i titoli di testa (che compaiono a metà film) si scatena un’orgia di rabbia magistralmente coreografata, un raptus di isteria collettiva che moltiplica all’ennesima potenza la celebre scena di Possession con Isabelle Adjani che da in escandescenze nel tunnel sotterraneo; ma come se fossimo nel finale di Carrie di De Palma, tra persone che prendono fuoco e altre scaraventate contro le pareti (qualcuno ha scritto che sembra di vedere “Saranno famosi girato dal Marchese de Sade con una steadycam”). Senza dimenticare che si tratta pur sempre un musical, benché sui generis, con un’incessante colonna sonora che alterna Cerrone, Aphex Twins, Daft Punk e Giorgio Moroder, per trovare una tregua finale solo nella distensione melodica di Angie dei Rolling Stones.

Potrebbe essere il miglior film di Gaspar Noe, una performance cinetica al fulmicotone svuotata di qualunque sostanza (come peraltro è sempre stato il suo cinema), e anche se non c’è niente di realmente sovversivo, lo stupore per l’esibizione di cotanto virtuosismo lascia stupefatti. Meglio ancora di Refn, Noé sa far proprio il delirio percettivo di un immaginario elettrico e contemporaneo, per frullare superfici e corpi, suoni e colori in un trip allucinogeno e claustrofobico. Sia chiaro che c’è tanto talento quanta furbizia, e nonostante le ultime immagini del film spingano in altra direzione, è certo che l’LSD nella sangria l’ha messa proprio il regista.  [Alessandro Stellino]