Quando «lo spazio territoriale è svanito, rimane solo il Tempo – ma il tempo che resta»[1], scrive Paul Virilio. Consapevole dei rischi, con La strada dei Samouni – proiettato in anteprima nazionale al Sicilia Queer filmfest, a pochi giorni dalla sua presentazione alla Quinzaine des réalisateurs dove è stato premiato con l’Œil d’or per il miglior documentario –, Stefano Savona ha cercato di raccontare i tragici avvenimenti legati all’Operazione Piombo fuso, perpetrata dall’esercito israeliano tra il 2008 e il 2009, e durante la quale vennero massacrati ventinove membri della famiglia Samouni.

Evitando quindi una ricostruzione dalla cronologia serrata, il film trova il suo fulcro nella zona vuota, nella mancanza, nei resti che circondano e permeano le vite della famiglia al loro rientro dopo l’attacco. Perché, se è vero che «la più grande gloria di uno Stato è di fare delle sue frontiere un vasto deserto»[2], ed è vero altresì che oggi esse combaciano spesso con il cuore pulsante delle città, questo Nulla su cui poggia la narrazione non è affatto privo d’implicazioni estetiche e, di conseguenza, etiche. Le sorti dei membri della famiglia Samouni che le immagini (ricostruite) del drone israeliano privano della loro singolarità, riducendoli a un grumo bianco – sciame di formiche allarmate su cui incombe un mirino – sono eccedenti, animate da un movimento che si vorrebbe interrompere. Sarebbe auspicabile che la tragedia entrasse a far parte sia del discorso politico d’Israele, secondo cui i Samouni erano guerriglieri di Hamas, sia di quello palestinese che, da più parti, vorrebbe “appropriarsi dei loro funerali” per farne dei martiri della Jihad. E, con estrema coerenza, la famiglia riesce a opporsi a questa strumentalizzazione senza ricorrere a una contromossa perorata in seno alle istituzioni.

Prendendo in prestito i termini impiegati da Michel de Certeau, si potrebbe affermare che la «strategia» istituzionale si scontra con la «tattica» dei membri della famiglia, soggetti formalmente fuori dalla politica ma capaci di aprire una breccia nella quotidianità intollerabile attraverso il loro strenuo attaccamento a quella terra che più verrà distrutta e con dedizione sempre più ostinata sarà da loro riseminata. Savona ha affidato all’animazione di Simone Massi – e alle già citate immagini del drone che riportano, in alto a destra, il marchio del tempo – la ricostruzione vera e propria dell’evento. I disegni, che nella parte più drammatica prenderanno il sopravvento sulle immagini dal vero, mostrano una quotidianità solcata da squarci bianchi, in cui il paesaggio astratto è tanto sconvolgente quanto i luoghi concreti ai quali la famiglia fa ritorno. Così come bianche e spersonalizzate appaiono le sagome delle vittime, scrutate con sguardo impietoso, alla stregua di bersagli simulati dentro uno sparatutto. Lo spazio bianco è il vuoto lasciato dai morti e dal sicomoro sradicato dai bombardamenti, ma anche la somma di tutti i colori – di tutte le sfumature terrose e verdognole – nonché di tutte le gradazioni di verità.

In questo modo, tali frammenti cronologici, stralci di un diario dell’orrore, paiono quasi più sostenibili delle memorie scompaginate che il disegno si preoccupa di tratteggiare. «La prima vittima di una guerra è la verità», scriveva Kipling e, molto prima, Eschilo. Pertanto, le immagini “abituali” – dal vero – di morte, accumulate e riproposte senza tregua, in preda all’estasi dell’iperrealtà, sarebbero divenute digressioni pornografiche volte a ostacolare l’emersione di forme nuove, meno vicine alla statistica reificante e più aderenti alle (r)esistenze non dissimulate.

È inevitabile che la minaccia e il terrore gravino ancora sui sopravvissuti, anche quando la comunità si riunisce per i festeggiamenti, anche quando i ragazzi si perdono nel loro rifugio ristoratore, un’oasi in cui, tra gli sprazzi di verde, potrebbe ancora celarsi qualche ordigno letale. Non resta allora che muoversi ai margini e scoprire la virtù apotropaica dell’evocare anche ciò che, per continuare a vivere, si preferirebbe dimenticare.

[1] P. Virilio, L’orizzonte negativo: Saggio di dromoscopia, Costa & Nolan, Milano, 2005, p. 38.

[2] Ivi, p. 59.