Incentrato sulla vita privata e professionale di Neil A. Armstrong, passato alla Storia come il primo astronauta ad aver posato i piedi sulla Luna, First Man mette immediatamente lo spettatore di fronte a una questione di cui lo stesso Damien Chazelle, qui solo regista e non più sceneggiatore, deve farsi goffamente carico: se tra il 1961 e il 1969, anni di cornice al racconto, l’idea di impresa che le esplorazioni aereospaziali incarnavano corrispondeva nel bene e nel male all’ineffabile fuori campo dell’ignoto, nel 2018 non solo quel fuori campo può dirsi scoperto e reso visibile, ma letteralmente fagocitato dal cinema che, a sua volta, ha potuto colmarlo e dilatarlo di nuovi mondi e figure, fino a trascendere, quando non a rendere superfluo, lo spirito nostalgico che avvolgeva le avventure dei primi pionieri dello spazio. In fondo, cosa non era Space Cowboys di Clint Eastwood, con un incipit così simile a quello di First Man, se non la scoperta dichiarazione d’amore a un immaginario ormai in scadenza, visto attraverso gli occhi di quattro astronauti over 70? Qualcosa di tutto questo deve essere stato ben chiaro anche ad Alfonso Cuarón, che in Gravity si imponeva programmaticamente di mettere nuovamente l’uomo – anzi la donna – in tutta la disarmante finitezza di un fantasma personale, al centro di uno spazio infinitamente ostile ma, paradossalmente, terso, intellegibile, conosciuto.

Per raccontare gli anni caldi del primo uomo sulla Luna, Chazelle maneggia materiali biografici che – come si vorrebbe dimostrare – rischiano di plagiare la finzione nella misura in cui essa già li ha doppiati (il lutto accumuna tanto la Sandra Bullock di Gravity quanto il Gosling/Armstrong di First Man), e al contempo spinge l’acceleratore sull’ossessione personale verso il limite, la soglia, il punto di non ritorno, che razionalmente annunciano nuove prospettive per la conoscenza umana, con tutto il carico di pericoli e perdite del caso, ma inconsciamente rappresentano il confine su cui desiderio e dolore personali danzano in una forma quasi ascetica. Anche per questo il film è costruito con insistente uso di primi o primissimi piani, e un’estetica da cinema diretto che si muove dentro le cose tanto negli uffici della NASA quanto nei tinelli familiari: lo Spazio è una soggettiva confusa e fuori fuoco, un’eco di poco conto le motivazioni patriottiche da piena Guerra Fredda che vorrebbero fare da propulsore all’impresa. A contare è soltanto Armstrong, angustiato tra la paternità incerta della conquista tecnologica – sottoposta, questa sì, all’azione mitopoietica dei media dell’epoca – e la nostalgia certa del proprio futuro: quella di un padre orfano della propria figlia.

Di fronte all’immagine di Armstrong che osserva la propria ombra riflessa sul terreno lunare, proprio mentre inizia la ripresa che fece il giro delle televisioni di tutto il mondo, si direbbe che il nucleo del film avrebbe potuto essere maggiormente difeso: Chazelle cede invece nelle ridondanze dell’opera su commissione, dove a passaggi di rilievo – proprio quelli animati dalla nostalgia consapevole, e guarda caso sempre molto “musicale”, di La La Land – corrispondono troppo spesso le cadute di stile di un film senza piena gravità, smarrito, forse come il suo cinema, tra presente e passato. [Marco Longo]


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CINEMA DI RIVELAZIONE

Quando le Giornate degli autori aprono la loro programmazione con un nome riconosciuto del cinema documentario, il franco-cambogiano Rithy Panh, è un segnale che ormai l’ondata sotterranea del cinema del reale non solo ha conquistato i grandi festival ma è anche riconosciuta come una dichiarazione d’intenti: Les tombeaux sans noms diventa così il simbolo di un cinema che non ha abdicato al suo compito di azione e cambiamento del mondo “reale”, mantenendo viva la memoria di un genocidio e portando il suo regista a un grado ulteriore di consapevolezza rispetto al passato. In cineasti come Panh (o come Wang Bing, il cui ultimo documentario monstre – Dead Souls, presentato a Cannes 71 – dialoga con questo film dell’autore cambogiano) l’ossessione, che lo porta ad arrivare sempre più in profondità della sua ricerca sul genocidio avvenuto tra il 1977 e il 1979, è talmente necessaria e ostinata da diventare il fantasma che pervade ogni opera, richiamando al valore della memoria. Se S21 – La macchina di morte dei Khmer Rossi poteva sembrare la sintesi di un discorso già sperimentato nei documentari precedenti, oggi ci si stupisce a pensare quanto da quell’opera spartiacque siano germinati tutti i film successivi del regista, capaci di sviscerare gli ingranaggi di quella sintesi perfetta, testimoniandone il valore. Il cinema come menzogna (Duch, le maître des forges de l’enfer), il valore residuale dell’artefatto (Exile), l’impossibile fissità della memoria (che si avvera nello straordinario L’immagine mancante) e la liberazione del passato nella sua trasfigurazione nel presente nel nuovo documentario.

Lontano dai meccanismi brechtiani, che muovevano le rappresentazioni di carnefici e vittime in S21Les tombeaux sans noms si apre con i rituali di ricongiungimento ai propri cari, a cui in molti si affidano per trovare un po’ di pace e nella speranza di avvicinarsi ai corpi di parenti scomparsi in circostanze oscure durante il regime dei khmer. Proprio grazie alla ripresa calibrata di queste celebrazioni private, a cui si alternano le testimonianze di quegli anni da parte di due sopravvissuti (incarnazioni precarie e opache dei due volti dello sterminio), il regista compie un percorso di progressiva accettazione del suo ruolo di artista: di uomo d’immagini, che rivive il passato per vestire con abiti di pace le vittime della tragedia. Nel dipanarsi di una ricerca che attraversa luoghi fisici senza apparenti tracce del passato e fa proprie riflessioni maturate da un’Europa ferita di una simile tragedia (Jean Cayrol), Pahn realizza un film solo apparentemente simile ai precedenti. Con Les tombeaux sans noms compie un passaggio dal cinema come strumento di memoria, in cui si cerca l’immagine giusta e si svela l’artificio di una macchina strumento della propaganda, a un cinema di liberazione, che celebra l’arte come forma di sopravvivenza partendo dai gesti precisi di artisti e religiosi per reiterarli in un rituale che unisce chi è stato diviso da un genocidio. Solo allora le immagini possono dissolversi davvero: in un’elaborazione della scomparsa che ha lasciato il suo segno tangibile affidandosi al rito del cinema. [Daniela Persico]