Anche trattando tematiche che si prestano a inclinazioni drammatiche – come la fine e il cambiamento –, Olivier Assayas non è interessato a opacizzare le proprie drammaturgie con il cinismo dei pensatori disillusi: non c’è disperazione pessimistica nelle parole e nelle idee de Il gioco delle coppie, suo ultimo lavoro presentato in concorso a Venezia; non ci sono indulgenze compassionevoli verso personaggi appartenenti alla sfera della cultura, e neppure nichilismi eccentrici o compiacimenti forzati. La danza di significato che mette in scena intorno a poche figure non è per questo ingenuamente trasparente o ottimistica, si tratta anzi di un movimento che con precisa accortezza cerca di elaborare uno schema unendo i puntini caotici del contemporaneo: non lungo strade già percorse, ma con una scrittura dialettica e sinottica a un tempo, capace di imbrigliare universali concettuali dentro a una rete relazionale in cui la dimensione intima si fa concreta.

Incorporeità e materialità dei concetti giocano del resto per il regista un ruolo fondamentale. Tematiche e elementi dell’astrattismo riflessivo sono infatti attualizzati da un flusso dialogico che orchestra tutto il ritmo piano del film. La letteratura scompare, si dematerializza e si traduce in nuove forme; i supporti divorano altri supporti e modificano i contenuti; i corpi svaniscono dentro alle maglie dell’immagine digitale; l’identità si scopre relativa quanto la verità. Mentre i personaggi si interrogano, cercando di materializzare certezze attraverso domande senza via d’uscita, a circuito chiuso, retoriche, lo sguardo del regista si dissolve nella scrittura che tutto governa e guida la riflessione lungo interrogativi che costringono i protagonisti a stati di cattività: tutti rimangono mummificati nello stato dinamico che li coinvolge, nessuno vuole scegliere di declinare dal proprio percorso e stravolgersi, ognuno segna un contratto e viene a patti con la propria inadeguatezza, facendo finta di essere allineato coi tempi.

Assayas costringe lo stato intellegibile dei pensieri dentro ai corpi ed è in questo modo che ragiona sulla differenza tra analogico e digitale. La sua riflessione sul cambiamento dell’immagine e della parola nell’era di internet e dei codici binari è brillante perché mette in gioco il cambiamento sociale non tanto come ente incorporeo che può essere solo pensato e osservato – fiume elettronico che sembra non permettere libero arbitrio –, ma come forza estrinseca che modifica il corpo dell’uomo, il corpo del sesso, il corpo delle azioni e che può essere interiorizzata e quindi scelta. Non è un caso che dopo tanto parlare incorporeo, il futuro delle cose risieda dentro a una pancia: non toccato dal flusso eracliteo che cambia ogni cosa per non cambiare nulla, analogico dentro a uno schema digitale, a sporgersi sul mondo con un movimento di macchina innamorato della speranza.