Poggerà pure su un radiodramma di Deborah Davis, sarà stato sceneggiato da Tony McNamara e non dal fido Efthymis Filippou, ma The Favourite, Gran Premio della Giuria a Venezia 75 e, ora, candidato a dodici Bafta Awards e dieci Oscar, dell’autentico spirito di Yorgos Lanthimos è intriso come un biscotto inzuppato nel più fragrante tè britannico. Una delle ossessioni più vischiose del regista ellenico non riguarda proprio la simulazione e l’inganno, dimensioni ontologiche e artifici umani che tradiscono, nel riproporlo, il vero essere? Retaggio, forse, di una visione ancestralmente greca delle cose (parmenidea, platonica), di frequente i suoi personaggi si dissetano alla fontana dell’illusione, brancolano nei vicoli del fittizio. I protagonisti di Kinetta si rifugiano nella riproduzione mimata, incruenta, patetica di episodi violenti e sanguinosi; i ragazzi di Dogtooth sono cresciuti nella persuasione che casa loro sia l’unico cosmo praticabile; gli impostori di Alps fingono, davanti ai parenti del morto, di essere il caro estinto, aiutando i superstiti a negare la triste evidenza. Ebbene, in La Favorita, mentre l’Europa (siamo ai primi del Settecento) è lacerata dalla guerra di successione spagnola e il malcontento monta nelle campagne e tra il popolo, alla corte di Queen Anne, epigona degli Stuart, si consuma, tra ridicoli cerimoniali e imbrogli falsificanti, belletti a iosa e parrucche voluminose, una quotidianità avulsa da tutto il resto: corse di oche e aragoste (e i crostacei sanno tanto di autocitazione), lanci di arance tra gentiluomini, banchetti luculliani e balli caricaturali. Le dame simulano (!) le crudeltà belliche da cui sono escluse sparando agli uccelli; Anna rimpiazza i diciassette figli perduti con un allevamento da camera di conigli. Un clima delirante, insomma, “danza priva di qualsiasi senso attorno al simulacro del monarca”, come scrivevamo nei daily veneziani. Sì, perché anche la sovrana, gottosa e afflitta da ogni sorta di acciacco e isteria, stolida e inetta, capricciosa e infantile, è, a sua volta, un fantoccio, mera apparenza.

Ed ecco comparire Abigail, furba e ambiziosa. Aristocratica caduta in disgrazia per colpa di un padre dissennato, viene assunta come domestica dalla cugina Sarah Churchill, duchessa di Marlborough, la donna che, forte delle debolezze della regina, inclinazioni saffiche incluse, stringe in un pugno di ferro degno di Margaret Thatcher Anna e il Paese intero. Abigail non si accontenta  certo di essere un’umile fantesca e, al prezzo di complotti e bassezze, come un’Eve Harrington ante litteram riesce a spodestare Sarah dal cuore e dal letto della regnante. Sfregiata nell’animo e pure sulla guancia, Lady Marlborough espatrierà, mentre Abigail avrà guadagnato privilegi, titoli, danaro. Ma  non la felicità. “Tutto è vanità e un inseguire il vento”, Qoelet insegna: l’ebbrezza del potere è effimera come una sbornia e ad Abigail, che molto ha brigato, non rimarrà che accudire mestamente un’Anna melanconica e accidiosa, disperata e disperante.

A soggetti paradossali, spiazzanti, soffusi di acre misantropia, Lanthimos ci ha educati per bene e, ora, fedele a se stesso, ci riprova con una trama sulfurea che, servendosi di personaggi e vicende documentati ma infischiandosi dell’attendibilità storica degli eventi, presenta uno di quei contorti casi di dipendenza psicologica che avrebbe potuto filmare, a suo tempo, Joseph Losey. E, si tratti di riprendere la splendida magione di Hatfield o i più sgradevoli dettagli fisici, come le bistecche di manzo applicate alle piaghe corporali di Anna, la forma è sempre studiata e sapiente. Se grandangoli e inquadrature cerebrali e ricercate non sono mai mancati nella filmografia dell’autore ateniese (sempre più cosmopolita), stavolta come non mai il debito stilistico nei confronti di Stanley Kubrick è palese, insistito. Lanthimos e il suo d.o.p. Robbie Ryan innalzano, infatti, un omaggio ammirato a Barry Lyndon e al lavoro che valse l’Academy Award a John Alcott, in un tripudio di piani sequenza, zoom, prelievi iconografici da Rembrandt e Vermeer, scorci prospettici alla Tintoretto, illuminazione naturale, ammalianti scene notturne rischiarate da selve di candele. E continue alterazioni della normalità percettiva, come se la deformazione fosse l’unica cifra possibile da adottare per tradurre le distorsioni di menti bacate e, una volta di più, la lontananza dalla realtà. Anche i costumi di Sandy Powell, liberi da pretese di aderenza all’epoca narrata, tendono all’iperbolico, al carnascialesco, al parodistico, mentre le musiche di repertorio infieriscono frastornanti, all’insegna di una varietà di barocco e romanticismo di gusto anch’esso kubrickiano.

Una trinità di attrici audaci, sinistre, penetranti (Coppa Volpi e Golden Globe sono andati a Olivia Colman, ma Emma Stone e Rachel Weisz non le sono certo inferiori), aggiunge ulteriore fascino a una pellicola eccessiva in durata e, nelle sequenze finali, ridondante, ma al contempo imperdibile e letale pozione di cinismo e acume, una discesa speleologica negli antri bui dell’indole umana. Dedicata a quanti, magari per sincera convinzione, ritengono che un mondo in cui il potere sia in mano alle donne sarebbe migliore.