Nato sulla pagina scritta, “l’universo Saviano” ha caratterizzato direttamente e indirettamente con il suo racconto della Camorra tutto l’ultimo decennio della vita culturale e politica del Paese. Il cinema e la nuova serialità televisiva non sono stati ovviamente immuni a questo fenomeno e, con Garrone prima e Gomorra – La serie poi, il mondo raccontato dallo scrittore napoletano ha dato linfa a opere che si sono imposte a livello internazionale con straordinaria efficacia e con esiti sempre estremamente personali. La paranza dei bambini, adattamento dell’omonimo romanzo, rappresentava dunque una sfida tanto per Saviano (sempre coinvolto in prima persona in tutti gli adattamenti dei suoi lavori) quanto per Claudio Giovannesi, regista in crescita che si è segnalato grazie ai suoi intensi ritratti di adolescenti in Alì ha gli occhi azzurri e Fiore. Come trovare una modalità ancora diversa per raccontare un universo passato nell’arco di pochi anni dalla marginalità assoluta all’esposizione globale su giornali, cinema e TV, con esiti spesso strumentalizzati dalla politica e dai media?

A partire da questo nodo problematico La paranza dei bambini rappresenta una scommessa vinta nel suo incarnare qualcosa di assolutamente inedito rispetto ai precedenti lavori tratti dell’opera di Saviano. Ma il film è ben più di questo: complice un lunghissimo lavoro di ricerca in fase di casting, l’opera terza del regista romano rappresenta innanzitutto una prova di straordinaria maturità registica, in cui alla cifra realistica (da sempre al centro dei suoi lavori) si inserisce timidamente anche una punta onirica, che apre il film a una lettura più stratificata. Da sempre vicino a storie legate all’adolescenza e ai suoi processi di maturazione dolorosa, Giovannesi porta a compimento un percorso iniziato nel 2009 con il documentario Fratelli d’Italia. Ancora una volta al centro del racconto c’è un gruppo di ragazzi e il passaggio alla vita adulta. Ma di fronte alla matrice crime del racconto di Saviano, il regista (che ha lavorato alla sceneggiatura insieme allo scrittore e al sempre eccellente Maurizio Braucci, autore dietro ai più interessanti cineasti italiani, da Marcello a Rossetto e Di Costanzo) vince la sfida del confronto con il “mito” Gomorra asciugando la narrazione da ogni possibile risvolto epico e sensazionalistico. L’ascesa di Nicola, sedicenne che quasi per gioco con il suo gruppo di amici si inserisce nel vuoto di potere dei clan napoletani prendendo il controllo del proprio quartiere, ha sulla carta tutte le caratteristiche dell’iniziazione criminale. Ciò che manca nel film, e che lo rende dunque assolutamente speciale, è l’effetto “Larger than Life”, l’esasperazione espressiva legata alle dinamiche del genere e alla rappresentazione della violenza.

Cinema realista di alto lignaggio e di apparente trasparenza, quello all’opera ne La paranza dei bambini è lo sguardo di un regista che ha saputo distillare dalle premesse narrative sdrucciolevoli e controverse per cristallizzarle in immagini pregne del prezioso percorso di preparazione e di set condiviso con tutti i suoi giovani protagonisti. Nicola, Biscottino, Drone e i loro compagni non sono antieroi che vivono se stessi come i protagonisti di un film: i bambini di Saviano e Giovannesi sono bambini e nulla più. L’autore non si accontenta di pedinarli o di trasformali in baby scarface, ma arriva a comprendere che la scelta morale più forte (e più politica) non può che essere quella di posizionarsi al loro fianco, vivendo con loro lo spaesamento, la gioia e il dolore imposti dal sogno impossibile della propria affermazione esistenziale. Non c’è giudizio nel film di Giovannesi, non ci sono i buoni e i cattivi, non ci sono azioni giuste o sbagliate. Basti pensare al modo in cui viene messo in scena il festino organizzato dai bambini a base di cocaina e travestiti: materiale potenzialmente incandescente trasformato dal regista in un tableau vivant che dà vita a una sequenza assolutamente straordinaria, piena di una straziante dolcezza, che si contrappone all’apparizione del boss idolatrato, la cui fissità mortuaria è l’incandescente rivelazione di un desiderio inespresso.

Lontano da ogni tipo di voyeurismo, quello che rende palpitante il film è uno sguardo memore di un rigore pasoliniano nella rappresentazione dei corpi nella loro sacrale materialità, animato da un’affezione e un rispetto profondo prima di tutto nei confronti della vita dei propri protagonisti, per quanto assurda e sbagliata possa sembrare. Più che le parole, finiscono per contare gli sguardi e i gesti; più che i giudizi conta il modo in cui i personaggi si stringono tragicamente gli uni agli altri in un abbraccio (si pensi al rapporto che lega il protagonista e la madre). E così, fra un primo amore, una crostatina e un Kalashnikov, l’innocenza svanisce e le lacrime solcano il viso di questi bambini che continuano a guadarci, interrogandoci.