A volte i festival sono occasioni di accoppiamenti poco giudiziosi, tanto improbabili quanto attraenti, che non sono fissati nei programmi, ma nondimeno si fissano nella nostra testa. Con questa premessa, che può valere come apologia di una momentanea fissazione, mi permetto qui di accostare due film che apparentemente non condividono nulla se non la loro inclusione nella selezione di Forum Expanded della recente Berlinale.

Dopo El Auge del humano, l’argentino Eduardo Williams con Parsi (23′) propone un’altra deriva digitale, alzando la posta del suo approccio partecipativo, caratterizzato da coreografie aleatorie e trascinanti, in bilico tra documentario e surrealismo. L’occasione è una collaborazione con l’amico poeta Mariano Blatt, autore di un poema perennemente in progress intitolato No es (“Non è”) e composto da versi che iniziano immancabilmente col verbo “Parece” (“Sembra”), ovvero “Parsi” nel creolo della Guinea Bissau, dove il film è girato). Un inno alle apparenze sciorinato in una litania ubriacante di annotazioni, impressioni, frasi fatte strappate al quotidiano e schegge liriche visionarie (miscela familiare per chi ricordi gli strambi dialoghi che spuntano nei film di Williams). L’elenco di somiglianze inafferrabili in voice over è tradotto da Williams in una filata altrettanto incalzante di riprese affidate agli stessi interpreti. Ancora una volta si tratta di giovani locali, non professionisti, in perpetuo spostamento (a piedi, in auto, su rollerblade) verso il traguardo di una gara podistica, una marchetta o altre mete imperscrutabili, ma questa volta impugnano e bistrattano una GoPro 360°, che finisce per essere roteata in aria e infine scagliata in acqua. Un auto-pedinamento tutto scatti e sobbalzi, una visione sferica che il regista ha poi ʻricucitoʼ per lo schermo, conservando la prospettiva centrifuga e sconcertante di un caleidoscopio che evoca una realtà indefinibile, cangiante, ontologicamente queer.

Il modus operandi della berlinese Ute Aurand non potrebbe essere più distante da quello di Williams. Esponente esemplare di un cinema artigianale, dai primi anni Ottanta anche Aurand, con la sua Bolex 16mm, ha composto un poema continuo, scandito in minimi haiku: un cinema intimista e diaristico, che può ricordare quello di Jonas Mekas, ma ha piuttosto la delicatezza e la tonalità “minore” di altre grandi filmmaker come Marie Menken o Margaret Tait. Rasendes Grün mit Pferden (82′) è un collage di frammenti girati tra il 1999 e il 2018 che spicca per proporzioni rispetto al resto della sua opera, ma ne condensa magnificamente lo stile e lo spirito: ritratti e brevi osservazioni, viaggi in luoghi lontani e minuzie domestiche, incontri assorbiti da uno sguardo sfarfallante, curioso e reattivo, che pervade di empatia il pulsare svelto e discontinuo dei fotogrammi, gli svolazzi e i sussulti della camera a mano, i rintocchi e gli scarti improvvisi del montaggio. Un vasto album di una famiglia allargata, in cui vediamo gli stessi volti attraverso il tempo, un giardino di memorie e relazioni coltivato con tenerezza e contemplato da un occhio sapientemente infantile (un motivo ricorrente sono proprio i silenziosi confronti con lo sguardo dei bambini), il film di Aurand offre generosamente e senza spocchia una serie di lezioni di attenzione, che mostrano come leggerezza e consapevolezza non siano termini antitetici.

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Sembrano mondi così lontani quelli di Aurand e Williams: uno radicato nella tradizione analogica, in un’esistenza felicemente appartata, l’altro sguinzagliato verso le frontiere più spinte del digitale, esposto a situazioni indecifrabili in terre incognite. Eppure. Sarà che il titolo stesso del film di Aurand, quel “Verde sfrecciante con cavalli”, così astratto e preciso nel rendere un brandello d’immagine colto dal finestrino di un treno in corsa, pare evocare la stessa velocità inebriante delle immagini quasi involontarie raccolte da Williams. Sarà che con mezzi così dissimili, riescono entrambi a trovare un’armonica messa a punto tra macchina e umano, tecnica ed emozione, ispirazione e accidente. Oppure sarà solo un abbaglio; ma quel che mi trasmette questa inspiegabile aria di famiglia è in qualche modo un conforto e una conferma della biodiversità che ancora germoglia nel cinema.