La 72° edizione del Festival di Cannes si apre su toni di sommessa polemica: la rivoluzione degli orari delle proiezioni stampa indispettisce i giornalisti, messi alle corde da una manifestazione che dimostra di tenere in sempre minor conto il responso della carta stampata (per non dire di quello del popolo critico di internet), fa firmare embargo all’atto del ritiro dell’accredito e – corre voce – privilegia una manciata di penne scelte con proiezioni ad hoc per non inimicarsi quelle che ancora contano qualcosa e potrebbero indispettirsi pubblicamente.

Ma poco importa: tutto ciò vale quasi esclusivamente per i film in concorso e da tempo si sa che il meglio di questo festival non necessariamente lo si vede nella competizione principale (c’è grande attesa, da parte nostra, per la programmazione della Quinzaine diretta da Paolo Moretti). Lo attestano in maniera preventiva gli spezzoni mostrati sullo schermo durante la cerimonia inaugurale condotta dal comico Edouard Baer: pochi minuti per dare una sbirciata alle opere sottoposte alla giuria presieduta da Iñárritu (fortunatamente affiancato da Kelly Reichardt e Alice Rohrwacher, tra gli altri), compendio di un cinema d’autore convenzionale e standardizzato che non lascia presagire il meglio per i giorni a venire. Naturalmente non si giudica un film dal trailer e c’è comunque curiosità intorno ai nuovi lavori di Kechiche, Bellocchio e Malick, così come per Mati Diop, Jessica Hausner e Céline Sciamma. Male che vada, ripiegheremo sul Certain Regard che schiera Dumont (Jeanne) e Serra (Liberté) in mezzo a tante scoperte.

C’è aria di vecchio in prima linea, insomma, e scarso entusiasmo da parte dei giovani: pochi e stentati gli applausi che hanno accompagnato i titoli di coda del film d’apertura, The Dead Don’t Die di Jim Jarmusch. Un film, poco immaginativo già dal titolo, che pare un’operazione commerciale costruita a tavolino per mettere insieme un cast d’appeal – Bill Murray, Adam Driver, Chloe Sevigny, Tilda Swinton, Selena Gomez, Steve Buscemi, Tom Waits e Iggy Pop – ma mostra un regista a corto di ispirazione e che non fa alcuno sforzo per innovare il genere. L’incursione dell’autore di Only Lovers Left Alive nel cinema degli zombi produce un esito assai trascurabile, contrassegnato da un andamento soporifero e ridicole battute meta-cinematografiche che producono più imbarazzo che altro, come quando Murray rivela a Driver di non aver potuto leggere che una piccola parte della sceneggiatura. Si vorrebbe sghignazzare ogni tanto, ma non ci si riesce, e l’entusiasmo per la prima comparsata di Iggy Pop cadavere ambulante si assopisce presto nella prevedibile ripetitività degli accadimenti.

I personaggi sono di cartapesta, i tempi delle battute soporiferi e gli zombi macchiette che si aggirano sperdute tra le strade di una cittadina di provincia in attesa di venire decapitate da una killer con katana che fa il verso a Uma Thurman di Kill Bill (???). E se Romero già 40 anni fa ci aveva fatto specchiare nei macabri redivivi, imprigionati in un centro commerciale e incapaci di liberarsi dalle catene della schiavitù fisica e cerebrale del mercato, Jarmusch non fa che ribadire il concetto con molta meno intensità, mostrando zombi che vagano con il cellulare in mano alla ricerca del wi-fi e si assiepano all’ingresso del ferramenta che hanno frequentato in vita.

Non la maniera migliore di dare avvio a un festival, insomma. Il segnale di una manifestazione che andrebbe svecchiata e, al di là delle prove di forza sulla stampa, dovrebbe sforzarsi di ripensare la propria formula e fare opera di scoperta per evitare di trasformarsi in un parterre di morti viventi che affollano da anni la stessa sala, il Grand Théâtre Lumière, solo per abitudine. [Alessandro Stellino]