Il cinema del nuovo millennio, in fase di radicale mutamento, si definisce per mezzo di una negazione. Dopo il “no” definitivo di Chantal Ackerman, che con No Home Movie ha chiuso la propria carriera mettendo in discussione la possibilità della macchina da presa di inserirsi nella dinamica intima attorno alla quale ruotava il suo cinema, anche la scelta imprevedibile di Béla Tarr di tornare dietro la macchina da presa per realizzare una performance e non un film, dopo un silenzio lungo otto anni, porta in sé una domanda radicale sulla necessità del (fare) cinema. E Tarr stesso ci tiene a dichiarare che Missing People – performance su tre schermi prodotta nel contesto di Wiener Festwochen, manifestazione multidisciplinare dell’estate viennese – non è un ritorno al cinema, ma l’apertura verso un nuovo linguaggio, in cui sperimentare in libertà le potenzialità del rapporto tra l’immagine in movimento e il suo pubblico.

In un’ampia sala che porta le tracce di un impero svanito da tempo, alcuni tavolini sono stati dimenticati dopo un banchetto: bottiglie di champagne, qualche resto di cibo, fiori ormai appassiti nei vasi. Sui lati, spalti su cui sedersi, ma qua e là si scorgono cumuli di vestiti e qualche sacco a pelo, una borsa abbandonata piena di stracci e una manciata di stampelle senza padrone.

Sono le vestigia di un’esperienza: una performance che si è svolta nella sala e a cui possiamo prendere parte grazie al potere reificatore del cinema. Si apre un sipario, oltre il quale, su un grandissimo schermo, prende il via un film: appaiono dapprima gli stessi tavoli, sporchi e pieni di resti, la macchina da presa passa sui vari oggetti facendone percepire la loro materialità, poi l’immagine perde i colori e si tuffa nel passato. Dal grande portale entrano duecento senzatetto, uomini e donne di tutte le età, giunti a Vienna ma provenienti da parti diverse del mondo. Un quarto stato che avanza, stagliandosi nella nebbia, e rivelando progressivamente la propria presenza: una schiera di senza nome, al cui centro sta un giovane uomo in sedia a rotelle.

Il bacchetto è stato preparato per loro: Tarr li riprende nell’atto semplice e fondamentale del nutrirsi, in un silenzio religioso, restituendo all’immagine filmata la verità del gesto che supera ogni razionalizzazione. C’è una necessità e un piacere nel riunirsi attorno a una tavola: un atto fondativo in cui la festa ritorna alla propria origine. I corpi pesanti e feriti dei protagonisti, i loro volti fragili e segnati si aprono in un momento di liberazione nella notte in cui le danze scuotono le membra e i canti fanno rifiorire le voci. È un sogno ineffabile e crudele in cui ognuno si trasforma in un doppio di se stesso, in una rappresentazione grottesca dei ruoli sociali. Laccati d’oro o ricoperti di fard, i clochard di Tarr diventano simulacri delle nostre ambizioni, mentre nella danza di un vecchio sul monopattino si raggiunge un’impossibile armonia tra la nostra percezione del movimento e lo spazio dell’uomo nel mondo, in una sequenza di struggente bellezza.

Qualcuno non si risveglierà, al termine della notte, e il punto di vista centrale assunto dalla macchina da presa all’apice della festa si rovescia in un movimento ugualmente circolare ma di segno opposto: l’uomo ha perso ogni visione utopica, resta solo il corpo con la sua presenza materica a cui intonare un’ultima preghiera. E quando le persone lasciano la sala, anche il pubblico è chiamato a varcare lo specchio dello schermo cinematografico per radunarsi a prendere un bicchiere, mentre su un piccolo schermo affiorano i volti ritratti dei duecento protagonisti.

Composto di piani sequenza inframezzati da percepibili momenti di buio, Missing People è la liberazione di un grande autore, tornato all’essenza del proprio gesto cinematografico: il piacere di condividere un’esperienza semplice e profondamente umana, per dare spazio a chi è stato relegato ai margini e ci richiama alla nostra umanità perduta. Forse questo non è un film, ma è l’essenza stessa del valore dell’immagine in movimento.