Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, dove ha vinto il Premio Speciale della Giuria, il nuovo lavoro di Franco Maresco si è immediatamente configurato come atto secondo – potremmo dire un sequel – del suo precedente Belluscone. Una storia siciliana. I temi del 2014 si ripropongono infatti con altrettanta intensità all’interno di un nuovo pretesto narrativo, pur nella variazione piuttosto evidente di alcuni suoi dispositivi. Dalla separazione con Ciprì, Maresco esprime in forma sempre più disperata il rapporto irrisolto con la perdita di un immaginario e di un mondo, quello costruito come fuga e risposta al reale che oggi, invece, dilaga senza alcuna verità. In La mafia non è più quella di una volta, il sistema omertoso che divora anche la società civile nelle dinamiche dell’oblio o del travisamento si intreccia infatti con l’ineluttabile continuità tra mafia e spettacolo, di cui i concerti neomelodici organizzati dall’impresario Ciccio Mira erano e ritornano ad essere la sintesi più eloquente.

Come in Belluscone, ancora una volta Maresco “si affida” a Ciccio Mira per raccontare quella faccia di Palermo che “ha di meglio da fare” rispetto al prendere posizione contro la mafia, ma questa volta lo fa secondo un principio di esilarante rovesciamento, che del resto è endemico a tutto il film. Partendo dalle commemorazioni pubbliche del 2017 e 2018 delle stragi di Capaci e via D’Amelio, mentre i siciliani perbene affollano le strade ma sbagliano le parole (“A 25 anni dalla scomparsa di Falcone e Borsellino”), per arrivare alla sentenza di condanna in primo grado di alti funzionari nella trattativa stato-mafia, Maresco fiuta e congela spietatamente la fibra antropologica della realtà spostandosi nel quartiere ZEN, dove Mira, tra le solite feste di piazza e i suoi programmi di televisione locale, sta mettendo in piedi un paradossale concerto commemorativo dedicato “a Giovanni e Paolo”. Inesorabile la galleria di equivoci artistici e freak di cui Mira è agente, tra cui lo stonatissimo Cristian Miscel, che dopo un grave incidente uscì dal coma proprio grazie a Falcone e Borsellino, apparsi in sogno per dirgli di continuare a vivere e consacrarsi al canto. Ma ancor più centrale è il produttore dell’evento, quel Matteo Mannino che vorrebbe far presto evitando che dal palco si proclami un trasparente e deciso “no alla mafia”, ma in pochi passaggi precipita in una spirale di terrore che sfocerà nel delirio domestico, in odore di fantascienza. Sono molti i volti, in La mafia non è più quella di una volta, molti i corpi e molte le afasie culturali, antropologiche, psicologiche, fino al puro nonsense: Maresco osserva, insegue, interroga, manipola, mette e rimette in scena, utilizzando con esiti alterni l’archivio, l’animazione, il repertorio musicale, la voice over da documentario su commissione, inerme egli stesso pur dalla fortezza giudicante del suo scetticismo cosmico.

Non è supina al regista la sua inattesa alleata in questo ennesimo itinerario palermitano: è la fotografa Letizia Battaglia che nei decenni ha lottato con il lavoro e la militanza (a fianco di Leoluca Orlando) contro la mafia e contro la resa, e che nel film vede inaugurare dopo molta pazienza il suo Centro internazionale di fotografia, eccellenza della città. Negli stessi giorni di commemorazione scruta le manifestazioni dell’incongruenza civica e antropologica che attraggono Maresco, si presta a presenziare al teatrino di Mira e compagni, ma a differenza del regista si indigna e non vuole in alcun modo cedere al pessimismo. È forse questo il nodo più interessante del film: la possibilità, più o meno sotterranea, di imprimere all’indagine una dialettica, carica di affetto, tra le possibili posizioni d’artista in relazione alla realtà, i rapporti e gli allineamenti tra sguardo e azione, evidentemente senza retoriche, tesi, o verità definitive. Nel riconoscere il primato umano di Letizia Battaglia, Maresco segna uno scarto rispetto a Belluscone, dove al centro dell’opera era la sua fuga in prima persona rispetto alla fatale sensazione di incompiutezza della creazione. Quanto Belluscone era irrisolto, sfrangiato, opera centrifuga priva di appigli e fatta di brandelli, tanto è più compiuto La mafia non è più quella di una volta, forse esageratamente, pericolosamente risolto, perché l’ultimo cinema di Maresco, dissacrante e a tratti divertentissimo, risponde e realizza anzitutto le nevrosi del suo autore, molto più inaccessibili di quanto l’amore cinefilo che meritatamente gli si riserva possa lasciar credere.