Non è facile pensare, nel 2019, di poter girare un coming-of-age che mantenga tutte le componenti classiche del genere, notte da prom compresa, riuscendo allo stesso tempo a conservare il proprio sguardo, come ha fatto Tyler Taormina dirigendo la sua opera prima. Presentato all’interno della sezione Cineasti del Presente del 73° Locarno Film Festival, Ham On Rye approda al  Concorso Internazionale del Milano Film Festival con quella che apparentemente sembrerebbe la classica storia adolescenziale americana. Il prom è alle porte e un gruppo eterogeneo di adolescenti si prepara alla serata più attesa dell’anno. Tra l’imbarazzo verso i genitori, le domande esistenziali e i cambiamenti del proprio corpo, il ballo di fine anno si trasformerà in un’esperienza al limite del mistico, rispetto alla quale, per chi è escluso, non rimane da vivere che una notte fredda e desolata.

Partendo da questi presupposti narrativi quanto mai tradizionali, Ham on Rye ne sovverte le basi. Taormina non ha paura di sperimentare o di abbandonare la forma narrativa per trovare una propria dimensione, all’interno delle schegge di un racconto in cui emergono le sensazioni, gli odori, le paure e le frustrazioni dell’adolescenza. Attraverso i frammenti di un discorso giovanile Taormina filma per dettagli gli apparecchi dentali, i brufoli e il sudore, e li affianca alle insicurezze, alla spavalderia, agli attacchi di panico, ai silenzi e alle domande sul futuro che verrà.

Nel suo costituirsi per tasselli, il film concatena una narrazione così derivativa e a tratti astratta, da risultare quasi grammaticale nella sua enunciazione: grammatica di un coming-of-age, tassonomia degli stati giovanili, come una de-costruzione dei film che lo hanno preceduto, per raggiungere, nella sua inorganicità, a una sua forma e al suo pieno genere filmico. Nel mettere in scena questo schema Taormina non lesina eccessi, che trovano apice e risoluzione in una sequenza immaginifica in cui al primo bacio nella dance-hall del prom la sala viene irradiata da una luce quasi messianica e da un vento che scuote anche in lontananza. Da quel momento, arrivati al “fine ultimo” annunciato da alcuni dei protagonisti, Taormina ruota la macchina da presa di 180 gradi e abbandona le tonalità calde e luminose del furore giovanile per immergersi nella notte oscura di chi non ha partecipato al rito. Emergono le delusioni, gli abbandoni, un’umanità spenta e grezza che ha perso quell’ardore o non ne ha potuto partecipare. Un altro modo, sembra suggerire il regista, per dire che al di fuori di quei momenti il fervore si perde, rendendoci più pavidi, disillusi e soli. Il tutto si chiuderà con uno scoppio, un frastuono che rimette al mondo, come se tutto quello che è accaduto fino a quel momento fosse stato solo immaginato, o temuto.