Selezionato per aprire la settantesima edizione della Berlinale, My Salinger Year è un film sì ambientato nel recente passato – gli anni Novanta in cui e-mail e computer sono eccitanti e misteriose novità – ma capace di rimodularlo e con freschezza di sguardo parlare al presente. A dispetto del titolo, il regista Philippe Falardeau non assume infatti la prospettiva del (o sul) grande artista, ma quella di Joanna Rakoff, dal cui romanzo autobiografico è stato tratto il film. A 23 anni Joanna arriva a New York per coltivare la passione per la scrittura e viene assunta da un’agenzia letteraria, il cui cliente principale e J.D. Salinger – o Jerry, come tutti lo chiamano in agenzia. Presto però Joanna si rende conto che il suo lavoro consiste nello svolgere le mansioni di una segretaria e, quando è fortunata, nel leggere e valutare manoscritti di altri, senza quindi avere spazio per dispiegare la propria creatività.

L’elemento più originale del film di Falardeau è proprio quello di dare voce ai sentimenti di una categoria raramente rappresentata al cinema: coloro che operano dietro le quinte del mondo culturale. Non il genio e i tormenti dei grandi autori, ma i dubbi e le ambizioni di chi corregge e pubblica le loro opere, rendendone così possibile la fruizione. Certo My Salinger Year sceglie un tono consapevolmente favolistico, che sin dall’inizio è teso al lieto fine e non lascia mai diventare stridente la frustrazione di Joanna. Falardeau gioca il suo film sul filo della commedia, con un tono leggero che a tratti ammicca a una morale hollywoodiana: basta seguire i propri sogni con tenacia per trasformarli in realtà.

In questa direzione viene costruito il personaggio di Salinger, che non appare come una figura a tutto tondo dotata di spessore psicologico – e infatti non ne viene mai mostrato il volto – ma come una presenza benevola, un deus ex machina che per telefono incoraggia Joanna a non smettere di scrivere poesie. Più complesso e ambivalente è il personaggio della stessa Joanna, che ha gli occhi sognanti di Margaret Qualley, la cui ingenuità ed emotività (emotional è un aggettivo che ricorre continuamente nel film) Falardeau riesce a tradurre in energia strozzata da un mondo letterario ingrigito dalla burocrazia, con momenti visivi originali che infiltrano una nota di surrealismo in una narrazione altrimenti lineare. Si tratta soprattutto delle scene in cui di fronte a Joanna si materializzano i corpi dei fan di Salinger, che scrivono allo scrittore per chiedergli consigli. La giovane è costretta dalla politica aziendale a rispondere con fredde lettere preimpostate, ma non rinuncia a dialogare con loro. In quelli che l’agenzia letteraria cataloga come mitomani a caccia di attenzioni Joanna riconosce anche il proprio bisogno di dare voce a una complessità emotiva che nella quotidianità viene negata e che essi hanno ritrovato solo nelle opere di Salinger.

Quella meno semplificata è infine la figura di Margaret, la donna a capo dell’agenzia letteraria. Quando Margaret entra in studio nel primo giorno di lavoro di Joanna senza salutarla, avvolta in una pelliccia bianca e nascosta dietro al fumo di una sigaretta e a pesanti occhiali da sole, Falerdeau sembra voler citare Miranda Presley in Il Diavolo veste Prada. Il suo personaggio infatti riprende il topos della figura autoritaria che nasconde le proprie debolezze dietro alla maschera del comando, che tratta con durezza la giovane assistente ma in realtà si riconosce in lei. Aiutato dall’interpretazione di Sigourney Weaver il regista elude l’iperbole e lo stereotipo, per costruire un personaggio più complesso, affascinante anche perché lascia intravedere solo brevi squarci della sua storia, nascosta dietro a un ruolo che costringe a trattare i libri come merci da vendere.

My Salinger Year non è un film politico né ricerca un linguaggio formale innovativo – tutte caratteristiche tipiche di un’opera “da Berlinale” – ma Falardeau miscela abilmente dramma e commedia, cercando di riscoprire l’umanità appassionata e sofferente che anima la letteratura e che tuttavia rimane spesso schiacciata dai meccanismi dell’industria culturale.