Un messaggio Whatsapp letto per sbaglio mette in crisi il ventennale matrimonio di Richard e Maria. È lo schermo del cellulare (nostro inseparabile diario non così segreto) che rivela al marito la relazione extra-coniugale della moglie. Lui è sconvolto, lei decide di prendersi una notte di pausa per osservare la sua vita a distanza, rifugiandosi dietro a un altro schermo: la finestra dell’Hotel Lenox, esattamente di fronte al suo appartamento. Da quel luogo privilegiato può guardare il marito senza essere vista e riflettere sulla loro storia d’amore.

Oltre lo schermo, dentro una stanza d’albergo: la camera è la 212 (Chambre 212 è il titolo originale), dove il numero simbolicamente ironico, citato anche nel film, si riferisce all’articolo del codice civile francese che recita: «gli sposi si devono mutuo rispetto, fedeltà, soccorso, assistenza». In quella stanza, Maria ripensa alla sua esistenza e al passato. E ogni pensiero che le balena in mente subito si materializza in carne e ossa davanti a lei: così Maria incontra il marito Richard, ma nella versione ventenne, quando l’ha conosciuto e si è innamorata di lui; poi la madre, la nonna, gli innumerevoli amanti; si trova perfino faccia a faccia con la sua volontà, che prende corpo e assomiglia vagamente a Charles Aznavour. La camera 212 diventa un surreale palcoscenico e Maria un’involontaria drammaturga obbligata a confrontarsi con i ricordi, le illusioni, i desideri che le sfilano sotto gli occhi come tanti attori dentro un teatro.

L’hotel degli amori smarriti ha un impianto teatrale (Christophe Honoré è anche drammaturgo), ma il regista guarda al cinema e gioca con le sue convenzioni, con la sua struttura e le sue regole. Non a caso l’appartamento di Maria si trova sopra un multisala. In un’intervista a proposito del film, Honoré parla di «stanza-cervello»: la chambre 212, immaginaria location di incontri inaspettati, è la proiezione dell’inconscio della protagonista. La camera d’albergo è il luogo della mente e, come tale, ha la fluidità di uno spazio in costruzione, in divenire, costantemente sospeso nel tempo; è il magico punto di incontro tra presente e passato, che convivono e dialogano. Stanza-cervello, appunto, in cui tutto ciò che accade ha i contorni sfumati del sogno, dell’impossibile, ma possiede anche una forma tangibile, fisica. Come in un set cinematografico: i corpi si muovono prima di dissolversi e rarefarsi, diventando immagini sopra lo schermo.

Christophe Honoré smonta il dispositivo e dispiega la mente di Maria, mettendone in scena il lavorìo. E il processo del cervello di creare immagini in movimento assomiglia alla produzione di un film. Il gioco meta-cinematografico di L’hotel degli amori smarriti ha il ritmo della commedia brillante e possiede il tocco fantastico delle immaginifiche invenzioni di Michel Gondry, regista che si diverte a scardinare la verosimiglianza di spazio e tempo lavorando con la materia dei sogni. In effetti, le riprese di Honoré, con la camera che si sposta passando da una stanza all’altra come se non ci fossero né muri né soffitti, ricorda i movimenti spericolati del famoso videoclip di Protection dei Massive Attack, firmato proprio da Gondry nel 1995.

Nella stanza 212 cinema e storia d’amore si intrecciano. Christophe Honoré scompagina le regole e le convenzioni delle relazioni amorose con lo stesso divertito entusiasmo con cui gioca a smontare la struttura del cinema. Così il matrimonio di Maria e Richard passa attraverso tutte le riflessioni di una coppia sposata da vent’anni: i cambiamenti, le illusioni, la passione che sfiorisce lentamente, la distanza e i silenzi, il desiderio di nuove esperienze. Honoré investe Maria (una splendida Chiara Mastroianni, miglior attrice a Cannes, sezione Un certain regard) del doppio ruolo di regista e personaggio: è lei che dirige i suoi pensieri, ma interagisce (spesso fisicamente) con i ricordi-attori. E la sua storia d’amore con Richard (sdoppiato: Benjamin Biolay adulto, Vincent Lacoste ragazzo) vacilla nella realtà mentre continua a vivere nello spazio immaginario del sogno.