Fare il pastore non è un gioco. E questa serietà, questa urgenza di rimanere fedeli a se stessi, alla propria terra, alle proprie tradizioni è il luogo dove si scontrano Costantino e Mario Saru, padre e figlio. Assandira di Salvatore Mereu – adattamento del romanzo dell’antropologo sardo Giulio Angioni – racconta uno strappo generazionale, una scucitura che non può ricostituirsi neppure grazie all’amore e all’affetto genitoriale.

Quella tra Costantino e Mario è una distanza incolmabile: il primo, vecchio pastore sardo, rappresenta l’arcaico, la necessità del sacrificio e della fatica intese come testimonianze dell’esistenza stessa, incarna l’etica di un ruolo; il secondo, imprenditore opportunista, è lo specchio di un presente dove la salvaguardia e il significato dei luoghi vanno tutelati se servono, se possono essere valorizzati ai fini di un riscontro economico. Restyling, modernità, denaro.

La voce fuoricampo di Costantino, interpretato da un dolente Gavino Ledda (autore di Padre padrone, da cui fu tratto il film dei fratelli Taviani, vincitore della Palma d’oro nel 1975), sembra tra l’incredulo e il rassegnato, eppure le sue parole esprimono un tentativo, quello di continuare ad amare nonostante il fallimento di tramandare non soltanto una professione, ma anche una lingua, un senso di rispetto, un sentimento di appartenenza nei confronti di quella natura che, una volta, era un podere contadino dove il lavoro e gli animali bastavano per sentirsi parte di un mondo autentico e selvatico. E oggi, invece, “Assandira” (parola antica che significa “saluto al sole”) è un agriturismo per turisti ridotto a cliché, un intrattenimento folkloristico, uno sfogo bestiale in cui non pensare e lasciare andare gli istinti più selvaggi.

Otto anni dopo Bellas Mariposas, forse il romanzo di formazione del cinema italiano più crudele e appassionato dello scorso decennio, Mereu torna a raccontare una Sardegna verace e sgradevole, persino respingente, rifuggendo da tutte le tentazioni di abbellire ambienti che non hanno bisogno di un campo lungo che esalti la magnificenza del paesaggio. Assandira parla anche e soprattutto della bellezza della terra sarda, ma non la mostra, perché questo dramma famigliare che degenera nel noir autodistruttivo non ha bisogno di un contesto rassicurante oppure di location mozzafiato. Il cinema di Mereu non vuole farsi piacere: il suo sguardo si esprime attraverso l’utilizzo di una camera a mano finalizzata all’immersione realistica e viscerale. Nel panorama del nostro cinema è difficile trovare un autore così lontano dalla bella estetica e dalla corruzione dell’immagine efficace e televisiva. Assandira è sporco, sprezzante, piovoso, notturno.

Anche il personaggio di Costantino, anti-eroe inevitabilmente perdente e forse colpevole, non è esente dal marcio che attraversa tutti gli uomini, esprimendo a sua volta il risveglio di una natura sessuale, frustrata e repressa, che risponde al richiamo di una provocazione psicologica, di una seduzione peccatrice. Presentato alla 77. Mostra del cinema di Venezia, inspiegabilmente Fuori Concorso, Assandira sembra vicino per temi addirittura a Nomadland di Chloé Zhao, discutibile vincitore del Leone d’oro: il rifiuto della società capitalista, la dittatura del guadagno, il mito del successo, la nostalgia di una quotidianità a stretto contatto con la natura. Eppure, non si compiace della poesia di un’alba o di un tramonto, non cede alla retorica dell’anticonformismo. Assandira brucia e se ne frega.