Fuori fuoco è una rubrica settimanale che la redazione di Filmidee ha ideato per riflettere sul momento di crisi che il mondo del cinema sta attraversando in seguito alla chiusura delle sale su tutto il territorio nazionale. Una valutazione che parte da questo particolare momento storico per riflettere sul peso specifico che il cinema ricopre all’interno del panorama culturale contemporaneo, attraverso una serie di contributi di diverso stile e soggettività, nell’attesa non solo della riapertura fisica, ma anche di un ritorno a un’idea di collettività piena e consapevole.


Mi rivolto, dunque siamo

“Credo che tutte le cose giuste e importanti si siano fermate in Francia. Non so come faremo, ma questo pomeriggio o questa sera dobbiamo dare la notizia ai giornali o a quello che resta della stampa, dato che i giornali non vengono più distribuiti. Almeno le radio devono annunciare che il Festival di Cannes è sospeso. Se non daranno la notizia della sospensione devono almeno annunciare che verrà notevolmente trasformato affinché l’informazione sia chiara e precisa. Perché visto dall’esterno il Festival è…Sapete quello che è.”

Cannes, 10 maggio 1968. Contemporaneamente alla 21a edizione del Festival a Parigi la protesta degli studenti invade le strade, dando il via a un lungo periodo di scontri e rivolte che passa alla storia come Maggio Francese. Molti dei registi in concorso, alla testa di tutti François Truffaut e Jean-Luc Godard, esprimono solidarietà nei confronti della protesta, Godard in particolare inveisce contro i critici e i giornalisti cinematografici in conferenza stampa: “Si parla di solidarietà con gli studenti e gli operai e voi mi chiedete di parlare del primo piano. Siete degli stronzi!”

Dopo una serie di proteste attorno alla Croisette, al direttore di allora Favre Le Bret non rimase che annunciare la conclusione anticipata della manifestazione. Nello stesso periodo e per il decennio successivo la Mostra del Cinema di Venezia ebbe luogo solo in forma non competitiva, e addirittura le edizioni del 1973, 1977 e 1978 non avvennero, in quanto molti movimenti studenteschi e di lotta operaia non appoggiavano il fatto che il festival fosse nato come diretta emanazione del partito fascista.

Mezzo secolo dopo i fatti del Maggio Francese e della presa di posizione di molti intellettuali e cineasti da tutto il mondo a favore del movimento proletario e studentesco, in rivolta contro un sistema classista e iniquo, interprete di un capitalismo già traditore delle promesse democratiche del dopoguerra, pochi giorni fa, in seguito alla pandemia di Covid 19, in Italia e poi in tutta Europa è avvenuta la chiusura di ogni cinema e teatro aperto sul territorio nazionale, tra i primi a dover interrompere l’attività perché ritenuti servizi “non necessari”. I lavoratori della cultura (lasciamo perdere il termine “spettacolo”) hanno organizzato una serie di manifestazioni, piuttosto fiacche e inutilmente diplomatiche, per protestare contro quello che ancora una volta è considerato come un ambito periferico, di scarsa importanza, superfluo, a cui dedicare sì e no un misero trafiletto dello spazio informativo.

Ora, il punto non è opporsi tanto alla chiusura in sé delle attività culturali, a causa di un evento globale di proporzioni bibliche come questo, forse il primo accadimento di post verità della Storia, in cui diventa praticamente impossibile stabilire dove abbia luogo una sorta di fattualità verificabile e giudicabile, quanto piuttosto arrivare a intendere fino a che punto di incomunicabilità sociale sia arrivato il mondo occidentale per sciogliersi così, in un individualismo tale da non riuscire a organizzare una resistenza significativa contro un sistema politico che ha scoperto la sua incapacità amministrativa e di tutela dello stato sociale, denudato davanti allo strapotere della forza economica. Ogni categoria, in questo strano e tragico periodo e in seguito alle chiusure imposte da uno Stato confuso e disorganizzato, è scesa in piazza per se stessa, senza la minima traccia di solidarietà reciproca, senza un senso cooperativo di azione e lotta comune, e soprattutto, senza la capacità che gli intellettuali (ma ce ne sono? Ne è rimasto qualcuno?) un tempo avevano di farsi portavoce del malessere del popolo, forse il loro ruolo più nobile e prezioso.

Isolati da una società dei consumi che li ha ormai trasformati in macchiette spesso da dileggiare, privati del loro ruolo sociale, del loro peso specifico, in questa Europa che raccoglie le gigantesche macerie di vent’anni di distruzioni sistematiche di ogni coscienza culturale, gli intellettuali sono completamente isolati dalla massa, asserragliati in una fatiscente torre d’avorio, troppo in alto per vedere il dettaglio e allo stesso tempo sostenuti da una struttura troppo precaria per poter scendere dalla cima. Ecco che allora il microcosmo della cultura europea, dal cinema, al teatro, alla letteratura, diventa a-sociale, costruisce attorno a sé una bolla, si inganna con la minoranza di una minoranza di una minoranza, si circonda di accondiscendenza, non è più in grado di minacciare il potere con il suo linguaggio, perché quello stesso potere lo ha isolato, lo ha preso in giro, e lo ha reso pauroso di esporsi. Una categoria diventata per i più anonima, non concepita, o se concepita vista quasi come aristocratica. Da qui arriva il precariato, da qui arriva la non considerazione da parte di un potere politico che vede queste frange di Europa ormai estinte, utilizzabili solo se assimilabili allo sfruttamento dello spettacolo, in grado di creare distrazione, e da qui arriva la sacrificabilità. Ogni gesto che l’arte riesce ad affidare alla resistenza non riesce più a scalfire il mondo, e il mondo ignora tutto ciò che la vera forma artistica rappresenta.

Isolata, sola, la cultura diventa un feticcio per pochi, pensa solo per sé, tenta di salvarsi nei suoi ristretti circoli, non vive più se non di autoillusione. Recuperare se stessa sarà forse possibile, in parte, solo dopo questa catastrofe, solo il disastro azzera tutto, ma dall’azzeramento è necessario imparare, tornare a capire cosa abbiamo intorno, tornare a comprendere anche chi ci rifiuta, lottare per loro, unirci a loro, non vedere l’ignoranza come una colpa, non fraintendere l’individuo come punto di partenza, ma interpretarlo come punto di arrivo, dopo una rivoluzione ormai inevitabile, dopo una riscoperta di cosa può essere l’immagine-movimento. Il cinema in questo senso ha una forza potenzialmente militante che nessun’altra arte oggi può avere, latore di un’immagine diversa da quella che inganna il popolo, trasformandolo in folla attraverso le bugie del potere. Questa forza è la costante sperimentazione, che non vuol dire rendersi complesso e separarsi quindi dalla maggioranza, ma trasformarsi insieme a essa, procedere di pari passo con la volontà popolare. In questo caso sperimentazione, militanza e politica diventano necessari sinonimi.

Ma purtroppo il cinema ha smesso da tempo di essere politico, ha dismesso quei panni che una volta lo legavano inscindibilmente alla politica, alla militanza. Può certamente esaltare il politico in certe sue emanazioni, ma facendolo lo tradisce, diventa un esercizio retorico, un gioco di stile (prendiamo, ad esempio, le opere di Stéphane Brizé, assimilabili di fatto solo a del buon cinema di genere), perché non più militante ma solo analitico nell’inseguire l’esaltazione della politica, attraverso una prassi distaccata e reazionariamente post moderna. L’immagine non è più il centro della resistenza, ma si limita solo a raccontarla.

Ritornare quindi a ragionare su termini scambiati per vetusti, come lotta di classe, nuovo proletariato, arte come r/esistenza, farsi latori di uno stravolgimento, “andare in guerra” senza rimanere dietro a uno schermo e rifiutare rabbiosamente il fraintendimento di questi termini, concepiti dai più oggi come, appunto, macchiettistici, non attuali, non storicamente ciclici, perché resi tali da un sistema che governa il pensiero della maggioranza silenziosa, ritornare insomma a militare portando alla luce delle idee, sembra essere l’ultima salvezza. Rinsavire è l’unica possibilità, ritrovare la forza nel sacrificio, uccidere l’autocompiacimento e disfarsi dell’immagine di noi stessi. Non è facile in un mondo in cui lo spettacolo asservito al capitale ci balena davanti come una tentazione a ogni singolo passo che compiamo, ma rimanere inermi davanti alla nostra estinzione non ci porterà molto lontano, fino a quando sopra i nostri occhi non si presenterà altro che qualche storiella davanti a un computer e tanto, tanto spreco di vita.