Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore.

Ludwig Wittgenstein

La Storia oggi è racchiusa in una serie di immagini, immagini copiate costantemente in un riflesso deformato dal Mito, da quella retorica che fa perdere la verità in mezzo a corsi e ricorsi di significato, fino a quando è il Mito stesso a diventare Storia e a far nascere quella post fattualità che caratterizza il presente, le cui radici affondano però proprio nella perdita dell’origine brutale ma strutturale del passato.

Su queste premesse si regge l’intera struttura di Heimat è uno spazio nel tempo di Thomas Heise, un documentario che ripercorre le vicende della famiglia del regista attraverso vari scambi di lettere lungo tutto il Novecento. Intorno al Secolo Breve scorrono una serie di immagini che dismettono il loro senso informativo per scavare nelle parole scandite dalla voce di Heise stesso che legge, ritratti di un tempo sospeso, incorniciati dalle testimonianze di una Germania scissa da sempre, tra proletariato e scarti di un impero, tra totalitarismo e democrazia, tra Est e Ovest, tra controcultura e capitalismo, ritratti che fotografati in un perenne bianco e nero si scindono dalla parola, negando per reazione quell’idea baziniana di cinema come naturale proseguimento della forma del romanzo, per andare oltre una narrazione che proprio nel passaggio esiziale tra ventesimo e ventunesimo secolo riscrive il mondo cristallizzandolo in interpretazioni conniventi con le banalizzazioni che dividono settariamente la logica della ricostruzione storiografica in due blocchi di senso opposti l’uno all’altro, piuttosto che in una miriadi di punti di vista come realmente è sempre stato.

La ricerca sperimentale di Heise attraverso questa spuria cronaca famigliare cerca di convergere verso un’origine sincera che non sia condizionata da nessun immaginario, che sia letterario, fotografico o cinematografico, ma non riesce ad affrancarsi dal suo essere inevitabilmente figlia di un’umanità troppo abituata ad avvilupparsi al potere, che appanna tutto ciò che può impedire la sua sopravvivenza. Tuttavia è esattamente in questa malinconica impossibilità di concepirsi “oltre”  che risiede la bellezza più autentica di Heimat è uno spazio nel tempo, quella Heimat che Edagr Reitz aveva raffigurato proprio attraverso la forma letteraria della prima serialità e che qui invece viene intesa come origine utopica del significato affrancato dal significante, negando ogni rimando a un senso comune, ma muovendosi nella nebbia dei limiti del senso cercando di negarlo, lavorando di sottrazione e diventando, come raramente accade, un cinema che si libera del cinema.

Molto vicino a un’opera realizzata nello stesso anno come Ne croyez surtout pas que je hurle di Frank Beauvais, che ne condivide le stesse finalità ma in cui sono frammenti di altri film a incamerare una cronaca, anche il  lavoro di ricostruzione di Heise si oppone alla recente deriva di una messa in scena e di una drammaturgia documentaristica che sempre più radicalmente si avvicina alla fiction e che va a perdere quella discendenza diretta con l’origine di uno sguardo che vorremmo trascendesse la Storia per diventare esso stesso Mito, ma che in realtà è vittima di entrambi.

In una delle tante immagini che scorrono davanti ai nostri occhi durante il film, in contrasto con i molti ricordi spesso dolorosi letti dal regista, l’ombra di alcune pale eoliche si erge sulle lastre arrugginite di una fabbrica abbandonata, come a voler comprendere all’interno di un’unica inquadratura due epoche storiche diverse, ma quello spazio, il confine della macchina da presa, proprio nell’impossibilità di filmare il fuori campo svela i limiti di se stesso. Mentre secondo la norma l’immagine inganna nella promessa omnicomprensiva di soddisfazione estetica, questi quadri spogli di ogni tentativo di racconto raccolgono quella lezione della filosofia morale del secondo dopoguerra secondo cui non ogni cosa può essere inclusa nel linguaggio, ma è proprio sulla ricerca di questo limite che scorre il senso dello stare in vita, attraverso i vari olocausti che ci infliggiamo cercando proprio di andare verso quel punto di fuga che non siamo mai stati in grado di raggiungere.