Fuori fuoco è una rubrica settimanale che la redazione di Filmidee ha ideato per riflettere sul momento di crisi che il mondo del cinema sta attraversando in seguito alla chiusura delle sale su tutto il territorio nazionale. Poco si è detto sul senso di tristezza che ha ammantato una categoria, in tutte le declinazioni possibili, dalla disillusione dei romantici alla rabbia degli increduli, dalla malinconia dei saggi alla depressione dei più vicini al lavoro. Poco si è detto del lutto provato per gli ultimi difensori delle grandi immagini fragili.


Come Sandra Milo

Torno qui, in solitudine, ogni sera. Accendo il proiettore. Non aspetto nessuno. Guardo solo la luce sullo schermo. Ho sempre pensato fosse di piccole dimensioni, ma ora sono convinta che se dovesse cadermi addosso potrebbe realmente schiacciarmi. “Si recava tutte le sere nella sala cinematografica chiusa finché restò paralizzata dalla caduta dello schermo. Nessun testimone”. Attraverso il fascio luminoso e osservo i granelli di polvere che volteggiano nell’aria. Chissà che strana danza stanno seguendo, cosa fanno quando sono al buio: magari riposano, convinti sia notte. Chissà, quando l’acaro va in scena e ha i riflettori puntati contro. Mi domando se intuiscano di essere il solo spettacolo e io, l’unica spettatrice. Forse anche gli acari percepiscono la desolazione, la sconfitta. Le sconfitte mi mandano in bestia. La speranza mi fa piangere. Credere in qualcosa, mi contorce lo stomaco. Mi fa sentire viva, partecipante, attrice, membro di qualcosa. «Piccerè, quanto è grande st’ammore pe’ te…» Dov’era questa canzone?

Mi ricordo quando l’anno scorso proiettammo Parasite. Sobbalzarono tutti all’improvviso, come se non avessero mai sentito una canzone di Gianni Morandi. Alcuni, effettivamente, erano molto giovani. E i loro commenti erano molto più perspicaci rispetto a quelli dei loro possibili genitori. A volte, anche il loro silenzio era migliore, rispettoso, profondo, non solo nei confronti dei film, ma anche di loro stessi. Li ho sempre osservati, lì, mentre venivano attraversati dalle immagini. Mi interessa sapere cosa li turba, su cosa si soffermano quando sono seduti in sala, lievemente illuminati, con il mento all’insù. Quale titolo ha cambiato la loro vita, quali ricordi avrà smosso, quali sogni e idee avrà innescato. Forse l’avevano visto qui. Magari è per merito mio. Per colpa mia. Merito. Colpa. Io un po’ mi incolpo della vita che ho scelto. E non ho vergogna ad ammettere che il Cinema mi abbia rovinato. Sempre con questa ostinazione nel cercare qualcosa di più. Questa insoddisfazione di fondo nel ricreare un’emozione oltre l’ordinario. Nel riprodurre quel fotogramma. Ciak, nessuna azione. Allora sai cosa dovrei fare adesso? Incatenarmi. Andare lì fuori e incatenarmi alla porta di questo maledetto cinema. E sbraitare. Urlare tutto il rancore che ho dentro: voi, lo sapete chi sono io? Sono quella che non riceve un dignitoso stipendio da cinque anni, o spesso proprio non lo vede. Che lotta, ogni volta, con un sistema più imponente di me. Ieri un NO fiero e deciso al grande distributore di turno; oggi, non lo so più. Ho dato parte della mia vita per questo posto, per la sua indipendenza, per questa stanza da appena 80 posti a sedere. Quanto ho creduto nel cinema, nel suo potere salvifico, nella sua funzione sociale e militante. Mi guardo indietro e mi chiedo: ma chi me l’ha fatto fare, è stato tutto inutile, come sempre. Che cosa è rimasto. Cosa rimarrà. «Me sento tutto ‘o sole dinto ‘o core, sarrà che sì, sarà che no». Ci sono! Questa canzone, Martin Eden. Ecco, la prima volta che vidi l’ultimo film di Pietro Marcello piansi, è vero. Piansi perché ero così fiera che un giovane artista italiano fosse riuscito a dar vita a un’opera così: quella partitura, quella sinfonia di fotogrammi. Quell’attaccamento, quella perseveranza culturale, quella volontà. Ho pianto per la speranza, ancora.

Una volta lessi che i bufali africani, quando si abbatte il temporale, restano immobili nel mezzo della savana e senza battere ciglio, aspettano che smetta di piovere. Che pazienza, da ammirare. Ma onestamente chi è che vuole essere un bufalo? Io rifiuto per natura ogni raziocinio. Se fossi razionale, avrei scelto un’altra strada, un altro progetto di vita: visto, cosa non si fa per un ideale, ancora oggi? Se seguissi la ragione, di certo non verrei qui tutte le sere. Forse perdo il senno, forse non ho più giudizio: mi sento Adelaide sul lettino dello psicologo, impazzita per amore. Ancora. Cinema mi manchi, cinema ci servi. Allora sì, lo faccio, per voi, mi incateno! Certo che lo faccio! Ma chi è che si incatena ancora, in Italia, a parte Sandra Milo?