Dopo aver visto Vever (for Barbara) di Deborah Stratman ho capito finalmente cosa mi avesse sempre catturato nei film di Maya Deren: il ritmo. Questa consapevolezza è emersa in un arco di dieci minuti attraverso un’opera non realizzata da lei. Una presa di coscienza quasi improvvisa sorta da un’assenza, quella del suo ritmo visivo, e un’onnipresenza, quella del ritmo sonoro.

Vever (for Barbara) è un frammento multipersonale che mescola al suo interno tre differenti visioni, quella di Maya Deren, di Barbara Hammer e della sua realizzatrice, Deborah Stratman. Nomi, soprattutto i primi due, che hanno segnato la storia del cinema d’avanguardia e sperimentale femminile nelle sue due epoche più prolifiche, gli anni Quaranta e Settanta. Entrambe sono state filmmaker non allineate e controcorrente (contro-sistema, verrebbe da dire), radicali in forme e contenuti: Maya Deren come artista contro Hollywood e il cinema dominante, Barbara Hammer come pioniera del cinema queer, politico e sessuale insieme. La prima è stata un’inconsapevole maestra e icona per la seconda, come dichiarato esplicitamente più volte. Dichiarazioni concrete in forma e materia, come nell’opera breve I Was/I Am del 1973 e nel più recente Maya Deren’s Sink (2010): un esplicito e doveroso omaggio a lei che ancora e soprattutto oggi viene considerata non solo la madre del cinema d’avanguardia statunitense, ma di tutte quelle registe che fino ad allora non sapevano di poter stare dietro la macchina da presa, trovando con essa il mezzo per esprimere se stesse.

Barbara Hammer conosce le opere di Maya Deren durante il corso di Storia del cinema alla San Francisco State University: “I saw Maya Deren’s film Meshes of the Afternoon in my Film History class […] and when I saw there I knew there was a room for me in cinema. There was the only woman I had seen all semester”.[1] Era pertanto inevitabile che i destini delle due artiste si incrociassero nuovamente, perpetuando quel legame di sorellanza e devozione artistica verso chi, con fatica, aprì la strada: così anche Stratman con quel “for Barbara” incorniciato tra due parentesi, ringrazia la regista un anno prima della sua scomparsa – che avverrà nel 2019 – mettendo insieme passato, presente e un messaggio per il futuro.

Le immagini che vediamo appartengono a girato inedito filmato da Barbara Hammer durante un viaggio in moto in Guatemala nel 1975; il suono, così come le scritte e i disegni (i vevers, simboli che rimandano alla divinità) che compaiono in sovraimpressione sono di Deren e sono tratti dal suo libro antropologico Divine Horsemen: The Living Gods of Haiti (1953). La voce stanca è quella di Hammer, l’altra di Stratman, registrazione di una telefonata realmente avvenuta: all’inizio del 2018 è stata proprio Hammer a chiamare la giovane regista, chiedendole di utilizzare quel materiale mai montato prima.

Guardando Vever viene in mente una parola, abbandono, nelle sue plurime accezioni. Abbandono inteso come abbandonarsi o lasciarsi andare a suggestioni e connessioni, le stesse seguite da Stratman. L’abbandono materiale – voluto o non – di quelle immagini, non solo da parte di Hammer (“So, why I did abandoned this?”) ma anche di Deren: il titolo del libro sopracitato sarà lo stesso del film montato postumo nel 1977 da Teiji e Charel Ito sul materiale filmato dalla regista, l’Haitian film footage (4 ore di pellicola 16mm, senza sonoro e in bianco e nero). A proposito di abbandono, torna in mente la famosa rassegna del 1946 intitolata significativamente Three abandonend films realizzata da Deren, in cui proiettò lei stessa i suoi primi tre film (Meshes of the afternoon,  At Land e A Study in Choreography for Camera) affittando il Provincetown Playhouse di New York.

E ancora l’abbandono di una modalità prestabilita ed oggettiva di fare cinema antropologico a favore di un’immersione totale e di un contatto diretto – quasi tattile – con le persone e le popolazioni filmate (la mano di Hammer che entra nell’inquadratura nei primi secondi del film). L’abbandono – inteso come dimenticanza – delle antiche tradizioni indigene, dei tempi lenti, dei rituali, sostituiti dal progresso occidentale. L’abbandono di consolidate strutture per l’ignoto, della ragione per l’istinto. C’è questo dietro al percorso compiuto dalle due donne, entrambe alla ricerca di una nuova realtà sociale e culturale, in fuga da loro stesse e dalle strutture di potere nelle quali sono nate e cresciute.

Hammer compie il proprio viaggio in un periodo politicamente critico e significativo per il Guatemala, nel mezzo delle guerre civili tra indigeni e governatori che segnarono il Paese negli anni Settanta. Se la sua resta una tappa di passaggio, quella di Deren caratterizzerà in maniera definitiva le sue ricerche, compresa la sua concezione dell’arte e del gesto creativo, in una totale immersione haitiana. In entrambi i casi c’è la volontà di un’esplorazione soggettiva e ravvicinata, l’esigenza per entrambe di trasformare quel momento in un’esperienza corporale e personale. Deren va ad Haiti nel 1947, per poi ritornarvi nel ‘49 e nel ’50: Haiti divenne il progetto mancato di una vita e lei rimase così ammaliata da quell’isola che avrebbe voluto crearvi un’industria indipendente amatoriale dedicata alle produzioni in 16mm. Ad affascinare principalmente la regista furono le dinamiche del rito Vudù e l’insieme delle credenze collettive instaurate attorno ad esso. Mistero, morte e rinascita sono tematiche costanti che appaiono già nelle sue opere prime, a partire da Meshes.

Attorno a questa inspiegabilità e misticismo si erge Vever. Come in una cerimonia magica, questa volta filmica, le visioni delle due sperimentatrici vengono riportate in vita in un dialogo mai avvenuto che diviene una nuova realtà. Così disse Maya Deren a proposito del montaggio: “Quando metto insieme due immagini non è in base a una loro relazione simbolica quanto piuttosto nello sforzo di creare una nuova realtà, creando, realmente, una relazione funzionale tra loro”[2]. La narrazione che emerge dal lavoro di Stratman è reale, tangibile: le immagini di quel mercato ortofrutticolo indigeno ci sembrano sempre più sbiadite, e al posto di stoffe e nature variopinte si fanno largo le merci e i simboli del consumismo occidentale. “Se la storia venisse documentata dagli sconfitti piuttosto che dai vincitori, farebbe luce sulla realtà, non sui mezzi teorici per il potere”, leggiamo nel film. Questa verità, così svelata da due donne a loro modo oppresse da un sistema cinematografico che non ha mai attribuito loro il giusto riconoscimento, ci porta inoltre a riflettere sulle difficoltà e impossibilità economiche derivanti dal fare cinema controcorrente. In questi due viaggi Deren e Hammer sono fuggite dalle loro vite private, da meccanismi sociali inadeguati, da valori opprimenti. Ma dove andremo quando non ci sarà più alcun posto in cui nascondersi e trovare pace?


[1] Modern Women: Barbara Hammer on Maya Deren, https://www.youtube.com/watch?v=3pTVbQilDqY

[2] Anita Trivelli, Sulle tracce di Maya Deren, p. 295