“Le differenze tra cinema e televisione, almeno dal punto di vista della creazione artistica, sono del tutto artificiose o, comunque, non sono necessarie né fondamentali. (…) quello che realizzo per il piccolo schermo riesce poi a essere accolto anche dal grande”. Così Ingmar Bergman suggeriva come il cinema, la sua fine, o la sua collocazione nella contemporaneità abbiano meno a che vedere di quel che pensiamo con lo slittamento da un dispositivo a un altro, la scelta di un supporto di visione o l’imporsi di un nuovo assetto commerciale.

Oggi che Scene da un matrimonio ha ritrovato posto nel palinsesto televisivo in una nuova e patinata versione, a chi si arrovella su cosa rimanga della fonte originaria, del senso per il cinema del maestro svedese, Bergman Island di Mia Hansen-Løve offre più di una risposta.

Chris e Tony – coppia di registi in cerca di un difficile equilibrio tra vocazioni individuali e la responsabilità condivisa di una figlia – si recano a Fårö guidati dal loro credo nell’immanenza del cinema e dei suoi maestri, e nella possibilità di ritrovarne l’essenza nella realtà fenomenica. Chris in particolare, cristiana in stallo creativo e quindi in crisi religiosa, è mossa dal desiderio di toccare con mano la materia da cui deriva la sua devozione. Vuole vedere esattamente ciò che guardava Bergman, ripetere i suoi percorsi, e forse anche sentirsi un suo personaggio (se il letto di Scene da un matrimonio in un primo momento la spaventa, il brivido del reenactment finisce per intrigarla). Il rischio, però, è che la venerazione tracimi in idolatria, portando a perdersi tra i rituali del consumo “culturale” e del turismo di massa, come il Bergman Safari dove illustri critici, studiosi e artisti discettano con sicumera sull’inessenziale.

L’idealizzazione della persona Bergman viene presto frustrata dal processo di immedesimazione con il regista stesso: i racconti che tratteggiano un uomo freddo, capace di porre una netta cesura tra processo creativo e vita affettiva portano a galla l’impossibilità del paragone, la sconfitta in partenza di Chris, alla quale la stessa condotta, in quanto donna, implicitamente non verrebbe perdonata. È a questo punto che Bergman Island si lascia leggere come un sottile revenge movie, che attraverso la personalità dominante di Tony – descritto come paternalista, geloso dei propri progetti ed educatamente disinteressato a quelli della compagna – manifesta il disallineamento di una coppia esemplare agli occhi del mondo cinefilo, ma fragile come molte altre di più prosaici milieu sociali e culturali. Proprio come l’aereo che apre il film, superficialmente perfetto nelle proporzioni e nella traiettoria, ma traballante e sgangherato al suo interno.

Il desiderio di Chris di poter guardare dal di dentro le immagini di Bergman e la propria coppia, di penetrare l’apparenza delle forme per carpirne verità o inganno, pian piano si rovescia nella consapevolezza dell’irriducibilità della realtà al mito, e viceversa. Persino i paesaggi “bellissimi e perfetti” di Fårö appaiono improvvisamente inadeguati rispetto alla loro percezione cinematografica, mentre la visione di Sussurri e grida continua a essere un’esperienza inspiegabile, a cui forse nemmeno la sala in cui aleggia lo spirito di Bergman aggiunge davvero qualcosa. Perciò, per accogliere il mistero, Chris deve anzitutto accettare che questo rimanga tale. Imparando a guardare ciò che la circonda con occhi propri – letteralmente i suoi occhiali, non quelli prestati dal marito all’inizio del film, né il gadget venduto sull’isola di Bergman. Iniziando a esplorare i luoghi e gli altri in maniera istintiva, non codificata, e lasciando che quei fantasmi che il regista svedese sosteneva di sentire da una certa fase della propria vita abitino anche lei, e guidino il suo gesto creativo.

Non a caso, di personale, in Bergman Island, non c’è solo la dimensione di autofiction e il racconto sulla coppia. C’è soprattutto il ritorno di Mia Hansen-Løve al più persistente dei suoi fantasmi: l’amore di gioventù. Il racconto intessuto con altri interpreti – il film nel film a cui è concesso lo spazio della seconda metà di Bergman Island – è un’ulteriore raffigurazione di ciò che da sempre anima il suo cinema. La reiterazione di quell’esperienza seminale a cui tutti – che siano figlie in cerca dei propri padri, come in Tout est pardonné e Le père de mes enfants, dj sulla rampa di lancio, come in Eden, o docenti con una lunga carriera alle spalle, come in L’Avenir – finiscono in modi diversi per tornare. Quel sentimento totalizzante, spezzato dal confronto ad armi impari con la realtà, che non sa diventare adulto ma che misteriosamente continua a far sentire la propria presenza. C’è un’ellissi, nel film, che passa attraverso il sonno di Chris. Ed è in questo spazio non mostrato e non dichiarato che si sparigliano le carte, che la realtà assume le proporzioni della finzione e dell’amore mancato, o forse il contrario. È una fessura che apre la strada ai fantasmi e a ciò che Chris o il suo alter ego avrebbero potuto essere, a un ricordo cristallizzato a cui dare un altro epilogo. È il luogo dell’indefinitezza e della possibilità, e perciò anche del cinema.

Ci sono delle nuvole biancastre a riempire i titoli di testa di Bergman Island: quasi un ossimoro rispetto a un medium che sembra tendere sempre di più all’alta definizione, alla possibilità borgesiana di visualizzare l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, all’espansione degli universi narrativi. Eppure, proprio per questo, non ci sarebbe stato modo migliore di indicarci dove dovremmo continuare a cercare il cinema.