Quando la parola fine viene sancita con così tanta disperazione e abbandono, un nuovo inizio non solo appare fantomatico e inafferrabile ma anche, e soprattutto, futile.

Jiao you (Stray Dogs, 2013) è quell’epilogo che segnava il presunto testamento artistico di Tsai Ming-liang, rappresentando sia la chiusura di una carriera poco più che ventennale, che come ci è possibile constatare ha ancora molto da offrire, sia il sigillo sepolcrale di un cinema giunto ormai all’inevitabile confronto con un’immagine catastrofista del mondo come luogo asfittico, inospitale e insanabile per l’essere umano. In seguito a Jiao you ogni successivo film del taiwanese ha conservato al suo interno una carica residuale che sempre orbitava, giustamente, attorno al peso di quello specifico lavoro. Finora.

In Rizi (Days, 2019), presentato in concorso al 70° Festival internazionale del cinema di Berlino, Tsai Ming-liang osserva per l’ennesima volta Lee Kang-Sheng, alter ego attoriale del regista sin dal suo esordio, condurre un’esistenza segnata da uno strano e cronico dolore alla schiena che gli attanaglia l’intero corpo in un accumulo progressivo di rigidità e tensione e che tenta di venire sciolto tramite sessioni di agopuntura e abluzioni terapeutiche, senza che queste portino alcun sollievo. Solo l’incontro in una stanza d’hotel con Non, giovane laotiano immigrato in Thailandia, costituisce un momentaneo rilascio di quelle contratture spirituali con l’espressione di un eros che non ha come scopo il raggiungimento di un piacere fisico, bensì l’attenuamento di un dolore impossibile da esorcizzare. La virtualità di un amore tra i due, privato di qualsiasi sviluppo futuro, costretto a consumarsi fugace e lubrico, non può che estenuare ancora e sempre più il corpo e la mente di Kang, trasformandosi, col tempo, in una straziante nostalgia del possibile.

Rizi si mostra quasi fosse un’opera prima con la quale il regista taiwanese debutta idealmente una seconda volta, portando con sé un carico di rinnovate priorità e preoccupazioni, riformulando quelli che erano elementi chiave dei suoi racconti. Su tutti il dolore fisico di He liu (The River, 1997) o ancora l’orologio di Ni na bian ji dian (What Time Is It There?, 2001). L’assoluto rigore formale cristallizzato in Jiao you è qui messo da parte in favore di un’intimità lacerante, mai così centrale, radicalizzata ed essenziale nell’opera, per la quale, a seconda dell’esigenza emotiva, alcune scene vengono spezzate in più inquadrature (scelta a dir poco inconsueta soprattutto se si considera che Ming-liang ha col tempo sempre più ricercato un punto di vista che condensasse in sé l’essenza del quadro) o sporcate da una macchina a mano, che segue per le strade di Bangkok Kang in un vero e proprio terremoto stilistico. A fungere da collante per il film, girato nel corso di più anni senza una sceneggiatura e con una troupe ridottissima, sono proprio i due personaggi la cui attrazione reciproca è data da quell’attrito tra il mondo esterno e la temporalità del corpo monastico, che il regista già ci ha presentato nella serie The Walker, incorporata qui, seppur in maniera meno estrema, da Kang e Non.

Come ogni opera tarda dei grandi maestri, Rizi sembra realizzato con la passione e l’incoscienza di un esordiente, quando nasconde invece al suo interno quella matura volontà di non bastarsi, anelando l’essenziale e rifondando così il proprio linguaggio da un rinnovato punto d’origine. Non a caso l’oggetto centrale del film è un carillon la cui melodia è il tema musicale di Limelight (1952), titolato Eternally, film nel quale Chaplin riflette sulla maestosità di un passato artistico (non solo di Chaplin stesso ma di una generazione intera) ormai decaduto, il cui eco tormenta e domanda: che cosa resta ancora da fare? Chaplin è stato tra i più grandi interpreti della slapstick comedy e l’esplicito richiamo di Tsai Ming-liang non si limita al solo discorso metatestuale del racconto, che espande e approfondisce la narrazione di Rizi, anzi si estende a trattare dell’utilizzo del corpo attoriale dal cinema delle origini fino agli anni venti del secolo scorso, tanto più che il dialogo è svuotato del suo valore comunicativo (“This film is intentionally unsubtitled.”). La famosa scivolata sulla buccia di banana, inerte a qualsivoglia partecipazione empatica delle sofferenze tanto del personaggio quanto del suo interprete, è ora uno slapstick del dolore.